Mostra Il ’68 di carta. Intervista alla curatrice Annabella Gioia

Dal 14 marzo all’8 maggio alla Casa della Memoria e della Storia di Roma è in mostra Il ’68 di carta, un ’68 fatto di volantini, pagine di giornale, disegni, appunti, foto, rimandi a libri, film e concerti del periodo. Un’immagine variegata e brillante dell’immaginario collettivo, degli ideali e delle aspirazioni di quegli anni per una scuola e una società diversa. Il tutto accompagnato da note storiche e approfondimenti che ci guidano in questo caos controllato. Per capire meglio lo spirito dell’esposizione abbiamo intervistato Annabella Gioia, una delle curatrici, nel comitato direttivo dell’Irsifar (Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza).
Perché una mostra sul ’68? Da dove viene la particolare scelta dei documenti? C’era il rischio di un revival nostalgico?
Innanzitutto c’è un’occasione che è il 50° anniversario del Sessantotto. Gli anniversari non sono semplici celebrazioni, ma un’occasione per riflettere e approfondire il passato, per divulgare conoscenza. Spesso chi ha vissuto il ’68 fa un racconto di quell’anno, dà un giudizio negativo o ne fa una celebrazione, avremmo potuto invitare i leader del movimento a raccontare le loro storie, invece noi volevamo tornare ai fatti, ai documenti, alla storia. La memoria è una fonte importantissima, ma non è la storia. Abbiamo attinto all’Archivio “Memoria di Carta”, archivio dei movimenti giovanili dagli anni ’60 ai ’90.
Che scuola volevano gli studenti? Che cosa li ispirava? Quali erano state le condizioni della contestazione?
In realtà abbiamo cominciato dal ’66, perché c’è stata una cesura nella storia della scuola italiana. Da una parte quanto accaduto al Liceo Parini di Milano, con l’indagine del giornalino d’istituto “La Zanzara” sul tema “Cosa pensano le ragazze d’oggi”. I ragazzi parlarono apertamente delle questioni legate all’educazione sessuale, e i responsabili del giornale vennero accusati di corruzione di giovani. Poi l’assassinio di Paolo Rossi, studente della Sapienza di Roma, nel periodo delle elezioni dei nuovi organi rappresentativi studenteschi. I fascisti lo malmenarono selvaggiamente.
I vecchi organismi rappresentativi erano al centro della contestazione, perché ve ne era uno solo, l’Intesa, non basato su una rappresentazione politica. Si opponeva il contropotere dell’assemblea, lo slogan era: no alla delega, è l’assemblea degli studenti che decide.
Grande influenza ebbe nel clima di quel tempo il libro “Lettera a una professoressa” di Don Milani, un sacerdote che a Barbiana, un paesino di montagna, aveva tirato su una scuola per i figli dei poveri. Ha aperto un orizzonte nuovo: era una critica alla scuola di classe, per chi aveva la possibilità di studiare. Milani diceva: chi conosce più parole è più uguale agli altri, e può rappresentare meglio i propri interessi, avere un ruolo attivo nella società.
Poi abbiamo seguito tutto il Sessantotto. Il cuore della rivolta è nell’Università. Non a caso perché dal ’61 al ’68 le iscrizioni erano più che raddoppiate, stava diventando scuola di massa. Tuttavia la scuola che si trovavano di fronte i nuovi studenti era una scuola per le élite, la classe dirigente, dove si insegnavano argomenti arretrati. Infatti i primi slogan erano: insegnare, imparare, argomenti vivi e attuali. Contestavano i contenuti, ma anche le modalità della didattica. Chiedevano corsi a seminari, dove ci fosse la possibilità per gli studenti di intervenire e contribuire; una didattica dal basso, dalle esigenze degli studenti.
Un altro punto contestato era la proposta di Riforma Gui, una riforma universitaria del tutto inadeguata per gli studenti, perché lasciava potere ai “baroni”, cioè ai professori ordinari, e non modificava sostanzialmente i contenuti. Prevedeva anche un diploma breve a tre anni senza alcuno sbocco lavorativo. Paradossalmente venne bocciata in Parlamento dagli stessi baroni, in molti casi anche deputati, perché proibiva i doppi incarichi.
La critica all’autoritarismo non coinvolse solo la scuola, ma tutta la società. Coinvolse completamente la famiglia: figli della borghesia che rinunciavano al benessere per andare a vivere nelle comuni. C’era una diffusa cultura del dissenso, che abbracciava il rock, i Beatles vennero in concerto in Italia proprio in quell’anno, il cinema francese, esperienze teatrali sperimentali come il Living Theatre. L’antiautoritarismo era ovviamente una valorizzazione degli individui, ma non di tutti allo stesso modo. Le donne erano già molto presenti, ma poche avevano ruoli importanti; erano chiamate gli angeli del ciclostile, macchina per stampare volantini. Le donne hanno dovuto aspettare gli anni ’70 con le contestazioni del femminismo.
Se confrontiamo la scuola immaginata allora e quella di oggi, secondo lei quali sono le differenze?
Ho lavorato per quarant’anni nella scuola. Oggi c’è spesso una grande disomogeneità: accade di frequente che nelle prime sezioni ci sono i migliori professori e i figli della borghesia bene, nelle ultime, nella P, i professori meno preparati, supplenti. Le assemblee vengono fatte nei giorni prossimi alle vacanze, così i ragazzi stanno a casa. Tra la scuola prospettata nel ’68 e quella di oggi c’è una cesura, e sono gli anni ’70, la lotta armata che ha cambiato la storia del Paese. Gli studenti abbracciarono un’ideologia politica e snaturarono la loro lotta, che era creativa, antiautoritaria.
Nel ’77 insegnavo in un liceo nella periferia romana: un’esperienza bellissima, c’erano studenti molto arrabbiati, ragazzi di borgata, ma anche pieni di trasporto, di volontà di partecipare. Alcuni di loro sono stati abbindolati da quei gruppi estremisti. Il clima di quel periodo era molto teso: quando fu sequestrato Moro le lezioni furono interrotte per un corteo interno di giubilo da parte degli studenti.
Dalla mostra e dal suo racconto si evince un contesto storico, culturale, sociale molto diverso da quello odierno. Oggi sarebbe inimmaginabile e forse fuori luogo una contestazione così dura all’autoritarismo e alla società in generale, certi slogan, certi riferimenti ideologici, una lotta così politicizzata, con i suoi pregi, ma anche limiti. Tuttavia è individuabile un filo rosso tra quei giorni e i nostri, una stessa tensione ideale nel rendere la società più giusta ed equa, una scuola che non si isoli dall’attualità, che risponda in primis alle esigenze formative dello studente e secondariamente alle competenze spendibili immediatamente nel mondo del lavoro. Come declinare questo spirito comune in forme adatte al presente è il compito più arduo, e lo si lascia alla riflessione del lettore.