EDWARD HOPPER AL VITTORIANO | E allora perché attendiamo?

A distanza di sei anni, Hopper torna a Roma nella suggestiva cornice del Complesso del Vittoriano con una retrospettiva degli anni compresi tra il 1902 e il 1960, curata da Barbara Haskell in collaborazione con Luca Beatrice, che raccoglie circa 60 opere provenienti dal Whitney Museum di New York, dalle più note tele ad olio ai meno celebri acquerelli del periodo parigino, fino ai significativi studi che permettono di conoscere l’eccellente tecnica del disegno dell’artista americano.
«Se potessi dirlo a parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere»: queste parole dello stesso Edward Hopper rendono delicato — e forse contraddittorio — un tentativo descrittivo della sua arte. Se un’affermazione simile si può ricondurre al carattere riservato e taciturno di questo grande artista, in essa sembra però esprimersi il motivo stesso della sua capacità evocativa, la cifra distintiva dei suoi lavori.
L’originale sezione cinematografica presente nella mostra, nella quale è raccolta una collezione di pellicole e voci del cinema del XX secolo direttamente ispirate ad Hopper (tra cui Hitchcock e Dario Argento), fa chiarezza non soltanto sullo stretto legame tra Hopper e il cinema, ma su una peculiarità propria delle sue opere, forse tra le prime ad essere notate dallo spettatore. Risultato di una tecnica pittorica dettata dall’uso di colori freddi e della costante presenza di una luce che mira a «non includere nel bianco quasi alcuna traccia di giallo», a sorprendere è un eccezionale realismo, un’aderenza così forte alla realtà da far confondere i suoi quadri con istantanee fotografiche.
Ma la ragione di questo realismo è anche il verso semantico della medesima espressione estetica: l’arte di Hopper possiede una straordinaria potenza narrativa, ogni opera sembra raccontare — o meglio, fermare — un momento di vita, un tratto della storia di qualcuno o qualcosa. L’arte hopperiana produce la strana ed inconsueta sensazione di trovarsi in una immediata partecipazione con l’opera, di trovarsi di fronte ad essa in tre: ciò che nel quadro è rappresentato (o i personaggi che lo abitano), Hopper che osserva e lo spettatore che, senza quasi mediazione, è già dentro quella storia o quell’altra, quella casa sperduta nella campagna americana. Questo sguardo al reale unisce insieme le tracce dell’autentica tradizione con una passione irrefrenabile per la ricerca del nuovo, una visione profonda con l’espressione essenziale e minimalista delle sue rappresentazioni. Eppure non vi è discordanza in queste differenze: forse perché Hopper non vuole difendere nulla ma solo osservare ed indicare ciò che vede e gli interessa: «L’arte americana non deve essere americana, deve essere universale. Non deve dare importanza ai propri caratteri nazionali, locali o regionali. Tanto non si può comunque prescindere da quei caratteri».
E proprio l’America, quella della prima metà del secolo, è tra i soggetti principali di tele e disegni. Ma non la solita America, quella colossale che siamo abituati a figurarci: Hopper dà fiato alla maestosità e vacuità del sogno americano, della crisi e solitudine della vita del XX secolo e quindi alla solitudine e alla domanda di ogni vita. Nessuna sproporzione, dunque, ma ponti, finestre, passaggi a livello: è nella realtà quotidiana e particolare, accessibile a tutti, nei luoghi in cui ognuno potrebbe trovarsi a passare che Hopper vede e racconta le tracce della bellezza, della vita, della vulnerabilità dell’esistenza. Non metropoli affollate e imperi economici ma strade vuote e silenziose, pompe di benzina, stazioni dismesse, bar di notte e donne che attendono di fronte alla finestra. Non grattacieli ma orizzonti di mare e fari, perché «i fari sono i suoi grattacieli».
Il denominatore comune è sempre uno, la luce, e la nota dominante è forse sempre una: l’attesa. Questa luce è capace di rendere presente ciò che appare: dagli interni delle case o degli studi ai ritratti di donne sole accanto al letto dove si è consumato un amore troppo in fretta, non v’è mai stanchezza o vuoto, ma sempre un silenzio carico di tensione, una sensualità sofferta e viva. La stessa luce che tradisce l’assenza di qualcuno o qualcosa, il sapore di una vita mal spesa, e la noia, che Hopper ha sempre celebrato, mai celandola.
Non v’è scampo, in quest’arte, per la fuga, e poi per una domanda piena di desiderio e speranza: dove tende tutta questa bellezza, tutta questa tristezza, questo mare e questo cielo sterminati? Sembra risuonare in ogni tela l’interrogativo decisivo che Cesare Pavese rivolgeva nel Mestiere di vivere: «Forse qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?».
Informazioni
Edward Hopper
1º ottobre 2016-19 febbraio 2017
Roma, Complesso del Vittoriano
Sito web: http://www.ilvittoriano.com/mostra-hopper-roma.html
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