L’abito, quel nuovo strumento politico in Libia

Quando il vestire non è soltanto una scelta estetica, ma un codice, una dichiarazione di appartenenza e un grido silenzioso, impattante, è lì che, anche senza parlare, prende forma un atto puramente politico. Un manifesto di battaglia culturale che può arrivare dall’alto dei leader o dal basso, per opera di un popolo o di un gruppo che trova la sua identità nella scelta di apparire in un modo piuttosto che in un altro.
In Libia, come in altre società del Nord Africa e del Medio Oriente, il modo di vestire ha giocato un ruolo importante nell’affermazione sociale e politica. Esplorare il panorama sartoriale significa raccogliere in ogni tessuto un vero e proprio linguaggio sociale capace di riflettere i modelli estetici e simbolici di un Paese, ma anche la relazione tra conformità e ribellione.
L’uso strategico della moda come strumento non verbale di comunicazione di intenti è sicuramente il termometro che misura i cambiamenti in corso e le tendenze politiche tra tradizione, modernità e potere. Se è vero che l’abito non fa il monaco, può comunque raccontare molto delle idee di chi lo indossa e di come lo indossa.
Lo stile eccentrico di Muammar Gheddafi
Muammar Gheddafi, nei suoi 42 anni di governo, ha strutturato la sua leadership consapevole del potere simbolico dell’abbigliamento. Dal panarabismo alla retorica anti-imperialista, sin dai primi anni al comando, il suo guardaroba ha fatto parlare di sé in tutto il mondo, rendendolo immediatamente riconoscibile nell’immaginario internazionale.
Dopo il colpo di Stato nel 1969 che gli diede facoltà di governare, adottò un stile ispirato al suo grande modello, Gamal Abdel Nasser, incarnando così la figura del grande guerriero rivoluzionario con l’obiettivo di rafforzare la sua percezione popolare. Protagoniste del suo armadio stravagante erano le divise militari kaki o verdi che verranno poi sostituite negli anni ’80 da uniformi con gradi dorati, spalline vistose o mappe della Libia ricamate sopra. Occhiali da sole, poi, a completare l’outfit.
A mano a mano che consolidò il suo potere, Gheddafi optò per un abbigliamento beduino, spesso indossando stampe tribali e copricapi tradizionali africani come il Kufi. Visivamente il suo messaggio esponeva in pubblica piazza le idee politiche di un’unità continentale e il rifiuto delle influenze culturali occidentali. L’abbigliamento, ispirato alle tradizioni africane, era anche un modo per ribadire la lotta al colonialismo e ben presto si arricchì di stoffe ispirate a figure come Nelson Mandela o Kwame Nkrumah, veicolando il legame con i loro valori e il loro operato.
Negli anni duemila, gli ultimi a guida del Paese, Muammar Gheddafi indossò spesso lo jard, un lungo mantello bianco o marrone tipico della cultura berbera e araba, a rappresentazione del legame col popolo libico e dell’intenzione di apparire una guida spirituale e non un semplice governante.
La resistenza culturale post-rivoluzionaria
Se sotto il comando di Gheddafi, l’abbigliamento divenne un codice formale e un simbolo di potere, dopo la rivoluzione del 2011, trovò espressione soprattutto tra le comunità oppresse dal regime, grazie alle quali esplose una nuova affermazione della propria identità politica e sociale.
Tra le prime file il ritorno della tradizione amazigh, geometrica e vivace nei colori, espressione dell’identità berbera scoraggiata in tutte le sue manifestazioni e il cui simbolo è divenuto il burnus amazigh, un mantello con cappuccio, incarnazione della resistenza culturale nelle celebrazioni pubbliche. Inoltre nella comunità tuareg, nel sud della Libia, il turban sahariano ha assunto il valore di orgoglio e dignità oltre che di appartenenza tribale.
Soprattutto tra le nuove generazioni l’abbigliamento è servito come rivendicazione di diritti o come strumento di riconciliazione e affermazione politica. I giovani hanno trovato la loro voce in opposizione al regime di Gheddafi indossando t-shirt con la bandiera libica antecedente al suo arrivo (rossa, nera e verde).
La nuova narrazione nazionale della Libia
Come per chi si addentra nelle strade della Medina a Tripoli, dense di storia e tradizione, oppure passeggia per i souk di Bengasi e viene travolto dall’essenza culturale della Libia, così il vestiario è testimone della sua narrazione politica e sociale.
La tunica tradizionale per enfatizzare le radici culturali e l’abito occidentale per manifestare volontà di cooperazione europea sono solo alcuni degli utilizzi dell’abbigliamento in materia di soft power libica. La moda, infatti, non solo conserva memoria delle tradizioni di un Paese, ma può essere un potente mezzo di proiezione internazionale. Capi che raccontano la storia e che riflettono la volontà di dialogo con il mondo.
Nel costruire una nuova narrativa nazionale, i rappresentanti politici libici potrebbero sfruttare l’abbigliamento come fonte di visibilità culturale. Tutte scelte sartoriali che potrebbero celebrare la cultura del Paese che è anche pronto ad affrontare le sfide moderne, dimostrando dinamismo e adattabilità.