“Il silenzio di Dio. Desiderio di risurrezione e scetticismo”. Una teologia per l’uomo contemporaneo

Date a Cesare quello che è di Cesare, e alla Queriniana quello che è della Queriniana; e anche questa volta alla casa editrice di Brescia bisogna dare atto, per amore di parresìa, di aver pubblicato un testo ottimo, capace davvero di arricchire –e in alcuni tratti di movimentare– il panorama teologico nazionale (che sempre più spesso, sempre da più parti, viene accusato di comodo immobilismo).
L’opera, intitolata poeticamente “Il silenzio di Dio. Desiderio di risurrezione e scetticismo”, è quella del tedesco Magnus Striet, classe 1964, docente di teologia fondamentale e antropologia filosofica; questi due orientamenti in effetti, come in tutti i migliori casi di deformazione professionale, si riscontrano perfettamente nel suo testo: Striet parte infatti da un dato autobiografico, un episodio della sua infanzia raccontato con toni sfumati e quasi nostalgici (appunto, poetici), per poi dare vita a un testo vigoroso, eclettico, un saggio che fa di una sorta di teodicea moderna il proprio filo conduttore. È questa una scelta che fa da programma: essa sembra suggerire che come la fede parte da un’esperienza, così anche la riflessione teologica ha bisogno di partire dalla vita, dal dato concreto, per poi assurgere solo in un secondo momento a riflessione universale e generale. Questo è il metodo che Striet usa in tutto il suo lavoro; egli si muove sempre a partire da un pretesto, tra citazioni artistiche e letterarie, su cui poi fonda e articola le proprie considerazioni. Queste ultime, che non hanno in alcun modo la pretesa della dimostrazione o del ragionamento stringente, sono offerte al lettore come un flusso continuo. Lo stesso autore le costella di questioni aperte, irrisolte, in cui la struttura del pensiero si eclissa per lasciare spazio alla domanda esistenziale, alla riflessione contemplativa più che alla risposta netta.
È questa l’unica consolazione offerta al silenzio di Dio di fronte al dramma del male: un silenzio partecipato da Dio e dall’uomo. Siamo così nel pieno di una teodicea moderna, lontana da quella ricerca ansiosa di difendere Dio dalle contraddizioni del mondo che egli stesso ha creato. È un Dio, quello di Striet, che nella dinamica della sofferenza umana passa dall’essere imputato all’essere parte lesa, nella migliore –e più profonda– tradizione del Venerdì Santo. In fondo questo è il passaggio obbligato per giungere alla Pasqua, alla risurrezione del terzo giorno, in cui scetticismo e desiderio, rappresentano la cifra descrittiva dell’uomo contemporaneo, condannato ad essere libero e responsabile.
Tuttavia, al di là dell’impostazione apprezzabile, quello di Striet rappresenta un testo per addetti ai lavori, notevole più nelle idee che nella forma letteraria. D’altra parte come potrebbe essere altrimenti? Esso non ha certo la pretesa del romanzo accattivante o del giallo trascinatore. La forma che il professore di Friburgo dà al suo lavoro è quella del trattato serio, del volume destinato più allo studio che alla lettura. Infatti, oltre che le numerosissime citazioni esplicite, esso contiene in filigrana un gran numero di riflessioni teologiche e filosofiche precedenti, della cui presenza resta solo un’eco sfumata. Tra le più considerevoli certamente vi è quella di Uta Ranke-Heinemann, la diavolessa verde, a cui Striet, implicitamente, mostra di ispirarsi in più di qualche passaggio.
Insomma, da Agostino a Holbein il Giovane, da Anselmo d’Aosta a Brahms, Wittgenstein e Buber, “Il silenzio di Dio” compie un percorso di teologia multidisciplinare, godibile e ancora migliorabile. Ora non ci resta che sperare in un seguito; aspettiamo che l’autore, dopo averci raccontato del silenzio di Dio, ce ne mostri anche la risposta, passando così dai taciti giorni della Passione a quelli loquaci delle apparizioni alla Chiesa nascente.
Articolo a cura di Gaetano Chiarolanza