Le insidie del digitale tra opportunità e falsi miti. A tu per tu con Marco Franco.

Negli ultimi due anni si parla sempre più di digital transformation. Se da un lato questa fase può essere un acceleratore della produzione, dall’altro in questa congiuntura si increspano tutta una serie di insidie finora incomprese, inesplorate.
2duerighe ha deciso di approfondire il lato oscuro del digitale con uno dei pochissimi scrittori in Italia che ha scelto di mettere nero su bianco tutti i volti di questa rivoluzione.
Con Marco Franco, giornalista ed head hunter per Randstad Professionals, autore de “L’uomo interrotto” (edito da De Ferrari), cercheremo di capire come essere maggiormente consapevoli del nostro tempo.

Il titolo del tuo ultimo saggio, “L’uomo interrotto. L’altra faccia del digitale”, fa intuire il fulcro attorno cui ruota l’intera analisi. Come ci sta cambiando l’era digitale?
Qualche giorno fa ho chiesto a 10 persone che avevano letto il mio libro, di dirmi quali fossero le loro sensazioni. Tutte avevano un minimo comun denominatore.
L’aver acquisito consapevolezza su un nervo scoperto, quello dell’ingerenza (spesso sottovalutata) dei social network nelle loro vite.
Non c’è ancora una vera consapevolezza non tanto sull’uso di queste piattaforme ma di un loro abuso e di come questo provochi tutta una serie di dipendenze e modelli comportamentali nocivi per l’individuo.
Si è accettata questa “invasione” tecnologica senza curarsi troppo degli effetti a lungo termine di questi dispositivi sulla nostra psiche, sui nostri comportamenti e di come percepiamo noi stessi e il nostro rapporto col mondo.
Lush, la famosissima catena di cosmetici inglesi, ha deciso di chiudere tutti i suoi canali social. Cosa ne pensi?
Significative sono le parole del suo CEO: «Ho passato tutta la mia vita evitando di mettere ingredienti dannosi nei miei prodotti. Ci sono ora prove travolgenti che siamo a rischio quando usiamo i social media».
Tutto ciò che afferisce alla parola “digitale” ha un’accezione positiva. Tutto ciò che è digitale è visto come un propulsore di cambiamento, soprattutto dopo la pandemia. Ed è per molti versi sicuramente così. Tuttavia, ciò che racconto nel testo è proprio l’altra faccia del digitale, il suo aspetto negativo. Esattamente quello di cui oggi parla il CEO di Lush. Come si dice, stiamo mettendo molta polvere sotto il tappeto, legittimandoci in nome del progresso o della crescita economica.
E non parlo solamente di digitalizzazione delle imprese o dell’apparato burocratico, parlo di una digitalizzazione dell’essere umano. Pensiamo di essere connessi e in compagnia quando in realtà sempre più spesso siamo profondamente soli. Il numero delle amicizie è direttamente proporzionale alla nostra solitudine, gli studi in merito sono abbastanza espliciti. Il mondo digitale crea infiniti mondi fittizi, immaginari.
Come è nata l’idea di questo libro? E qual è il messaggio che vuoi trasmettere?
Con la crisi del 2007/2009, quando ero poco più che ventenne, ho iniziato a percepire che stesse avvenendo un grande passaggio. Tanto quanto quello che ha raccontato Karl Polanyi nella sua “Grande Trasformazione”, ovvero di come il sistema capitalistico abbiamo causato un grandissimo cambiamento dei sistemi sociali e relazionali.
Nel 2007 ci ha travolto una grave crisi, proprio quando i millennials si affacciavano al mondo del lavoro. In quella congiuntura il grunge era finito da un po’ e con esso l’ultima avanguardia musicale che esprimeva una irriducibile ribellione. È stato in questo preciso momento che nelle nostre esistenze è entrato de facto lo smartphone e con esso l’invasività dei social network.
Ho iniziato ad unire alcuni puntini e a capire che l’Uomo si stava allontanando da tutta una serie di aspetti valoriali e comunitari. Questo progressivo allontanamento ha appunto “interrotto” una certa modalità di rapportarsi con se stessi, con il proprio Io, e di rapportarsi con l’Altro.
In un mondo di sempre maggiore virtualizzazione dell’esperienza (il concetto di Metaverso non è che l’ulteriore estremizzazione), quale può essere il ruolo dei Maestri?
Qualche giorno fa ho ripreso in mano un piccolo libro di Zizek, secondario rispetto ai suoi bestseller, dal titolo “Il deserto del reale.” Questo testo inizia con una barzelletta in voga nell’ex Repubblica democratica tedesca, che io trovo esemplificativa del concetto di metaverso.
Racconta di un operaio che trova lavoro in Siberia. Consapevole del fatto che tutta la sua posta verrà letta dalla censura, dice ai suoi amici: “Stabiliamo un codice: se la lettera che ricevete è scritta in normale inchiostro blu, significa che è veritiera; se invece è scritta in inchiostro rosso quella lettera dice il falso”. Dopo un mese, gli amici ricevono la prima lettera, scritta in inchiostro blu. “Qui è tutto meraviglioso: i negozi sono pieni di merci, il cibo è abbondante, gli appartamenti sono grandi e ben riscaldati; nei cinematografi si proiettano film occidentali, ci sono ovunque belle ragazze disponibili per un’avventura. L’unica cosa che non si trova è l’inchiostro rosso.”
Perché questa barzelletta è un caso esemplificativo del concetto di Metaverso? Perché è impossibile distinguere il vero dal falso. Dato che la lettera è scritta in blu, il suo contenuto parla della realtà “reale” oppure no?
Possiamo immaginare l’inizio di questa barzelletta sostituendo la Siberia con un fantastico mondo virtuale. All’apparenza sembra che possiamo fare tutto ciò che vogliamo, esercitare tutte le libertà che vogliamo. Eppure una volta rientrati nella realtà concreta ci accorgiamo paradossalmente di avere proprio un mancanza della tanto decantata libertà. Ci manca l’inchiostro rosso, quello che ci serve per descrivere una situazione di profonda angoscia.
Purtroppo è il rischio della realtà virtuale, che viene vissuta come fosse la realtà fisica, tangibile e concreta, senza però che lo sia per davvero. Questo processo di continua virtualizzazione, a cui il metaverso ambisce, ci sta portando ad un’inversione, ovvero percepire una entità virtuale come fosse “realtà reale”, sorpassando addirittura l’esperienza fisica in termini di tempo dedicato, emozioni suscitate. Proprio come nel film The Truman Show, viviamo inconsapevoli del fatto che ci muoviamo all’interno di uno show virtuale e la regia non è nostra.