Manifesto di Julian Rosefeldt al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Manifesto: Julian Rosefeldt e le avanguardie artistiche
Da qualche settimana Roma è invasa di locandine accattivanti, fotografie in cui una poliedrica Cate Blanchett veste i panni di personaggi diversi per attrarre il passante distratto e renderlo subito partecipe della video installazione Manifesto di Julian Rosefeldt.
Verrebbe quasi la tentazione di dire che allora Manifesto inizia già al di fuori dello spazio espositivo. Forse l’esperienza in cui l’artista tedesco vuole far immergere il suo pubblico inizia già sulle scale mobili della metropolitana, in attesa dell’autobus, durante la pausa pranzo fuori dall’ufficio. Perché è davvero impossibile non essere rapiti dall’interpellazione messa in atto dai quei manifesti (appunto!), in cui Cate Blanchett sembra guardare fisso chi cammina tranquillo per strada, lo esorta ad agire, lo spinge a farsi carico di un impegno civile.
E non c’è gesto più plateale, più significativo, più potente di mettere da parte la frenesia del vivere contemporaneo ed entrare in un luogo di cultura, prendersi del tempo per capire perché siamo umani, passare un paio d’ore riflettendo su come quello status di esseri umani sia continuamente messo in discussione nel corso del Novecento.
Tredici schermi diversi aspettano il cittadino moderno, tredici differenti momenti in cui dodici movimenti artistici (più uno schermo dedicato solo ed esclusivamente al prologo) dialogano tra di loro, ricostruiscono un legame visivo e sonoro che altro non è se non il correre della storia. E con esso la percezione dell’arte che muta nel tempo, la riflessione di decine di intellettuali che nei decenni si sono raccolti intorno ad un manifesto.
Dodici emblematic shot – quasi tutti in piano sequenza – in cui non c’è più il Joe Pesci che spara di Quei bravi ragazzi, né tantomeno il cowboy di La grande rapina al treno. C’è invece qualcosa di ancora più disturbante, impegnativo come dover sostenere uno sguardo sapendo già di essere quelli che stanno dalla parte del torto.
Cate Blanchett è la stessa vista nei poster in giro per la città, travestita da ragazza punk, da homeless, da madre tradizionalista, da insegnante.
Incrocia lo sguardo degli spettatori mentre pronuncia le riflessioni di Guy Debord sul Manifesto dell’Internazionale situazionista, le considerazioni pregne di spinta modernista di Marinetti o la voglia di «sprofondare il tridente nella carne spensierata» di Tristan Tzara e i surrealisti.
L’arte accompagna l’essere umano nel corso della sua evoluzione – sembrerebbe dirci Rosedfeld – ed ogni teorizzazione lasciata in eredità, nera su bianco su ogni manifesto è lì per testimoniare un carattere di universalità, per seguirci durante un percorso ad ostacoli di cui non vediamo la fine.
Così Manifesto parrebbe essere pensata come una sorta di matrice di trasformazione, entro cui lo spettatore/fruitore passa convinto di possedere dei canoni tridimensionali x,y,z ed invece ne esce stravolto, sconvolto dalla convinzione di aver sbagliato, di aver vissuto secondo canoni distorti.
Ogni manifesto è registrato ad imperitura memoria. Su ogni foglio, come tavole della legge, sono impresse non delle risposte, ma almeno delle domande. Sta solo a noi decidere quanto continuare ad ignorarle.
Non c’è gesto più plateale, più significativo, più potente di mettere da parte la frenesia del vivere contemporaneo ed entrare dentro Manifesto.