Le immagini violente spingono alla violenza?

È un dato di fatto che quotidianamente siamo bombardati da immagini di ogni tipo, provenienti dai più diversi media, tra le quali sempre più spesso immagini di violenza. Il senso comune ci dice che l’alta visibilità della violenza spinge ad imitarla, e che questa elevata esposizione sia in generale dannosa. Nella discussione pubblica lo si affronta dunque o come un problema morale, risolvibile con la censura, e/o finanziario, legato al mercato mediatico della violenza. Un bel libro L’immagine che uccide di Marie-José Mondzain, filosofa francese, cerca di dimostrare come sia inutile una discussione improntata in tal modo, e quanto sia necessaria invece un’analisi della natura dell’immagine e della violenza.
Innanzitutto la violenza non è un oggetto, ma è qualcosa che indica un eccesso, che può ledere la vita e la libertà di certi individui. Ciò che è visibile, in particolare l’immagine, ci può colpire, attirare in maniera quasi ipnotica e spingerci a creare un rapporto con essa. Un rapporto che può essere costruttivo o distruttivo. Si pensi alla catarsi della tragedia greca, esempio di rapporto costruttivo: lo spettacolo metteva in scena immagini scabrose, risvegliava negli spettatori desideri e pulsioni violente; gli spettatori potevano così liberarsene, purificarsi e accettare di buon grado la vita condizionata in società. Il rapporto distruttivo è invece quello immediato, non mediato dalla parola, che agendo direttamente sullo spettatore non gli permette di pensare, lo inghiotte.
Allora possiamo affermare che la violenza di un’immagine non dipende principalmente dall’immagine stessa, cioè dal suo contenuto, ma dal rapporto che si instaura tra immagine e spettatore. L’esperienza mediatica è una costruzione che può essere oppressiva o esercizio di libertà. La responsabilità e la qualità di questo rapporto sta nei produttori d’immagini e negli osservatori.
I produttori d’immagini devono mettere in grado l’osservatore di prendere una distanza critica, per poter giudicare in maniera indipendente l’immagine. La violenza mediatica non sta nei contenuti violenti, ma nella violenza esercitata sul pensiero e la parola, nell’annullamento dello spazio dello spettatore. Questo spazio deve essere in qualche modo inviolabile, perché è dove la persona può prendere distanza dall’immagine, rifletterci con i propri tempi, e dare un giudizio autonomo. Le immagini non sono uno strumento neutro, hanno potenzialmente una grande capacità di condizionare le menti; lo si sapeva fin dall’antichità e ne abbiamo avuto il più chiaro esempio nell’ossessiva propaganda dei regimi dittatoriali nel secolo scorso.
Lo spettatore d’altro canto deve esercitare il proprio senso critico. Il senso di un’immagine non è mai assegnato una volta per tutte, e l’osservatore deve ritagliarsi il proprio spazio dal quale fornire un significato autonomo. E’ un compito certamente individuale, ma i mezzi per compierlo devono essere forniti da una cultura dello sguardo. Lo sguardo, cioè la capacità di osservare e giudicare, deve essere costruito socialmente e culturalmente, in caso contrario lo spettatore è disarmato di fronte a pubblicità e propaganda che lo riducono a un’incapacità simbolica, cioè di conferire significati.
Educazione dello sguardo e onestà intellettuale di chi crea e condivide d’immagini sono questioni politiche. Questioni che richiederebbero da parte della politica sensibilità, conoscenza, tempo e volontà d’agire. Tanto più semplice, quanto più inutile è la via della censura, che non solo non intacca la natura del problema, ma va ulteriormente a ridimensionare lo spazio delle libertà.