Pasolini e la critica alla borghesia, intesa come potere capitalistico totalizzante

“In una società dove tutto è proibito, si può fare tutto: in una società dove è permesso qualcosa si può fare solo quel qualcosa.”
Pier Paolo Pasolini
Ormai tutti parlano di Pasolini, si sentono in diritto di farlo pur sapendo poco di lui. Viene citato in qualsiasi ambiente intellettuale e non, talvolta anche in modo approssimativo ed erroneo.
Ma per conoscerlo appieno è necessario conoscere le sue opere, ad esempio quelle cinematografiche, che spaziano da un neorealismo iniziale di Mamma Roma e Accattone ad un concetto di sacro molto personale come accade in Il Vangelo secondo Matteo o La ricotta, fino ad arrivare ad un postmodernismo e provocatorio approccio alla macchina da presa di Salò o Teorema.
L’aspra critica al Potere
Soprannominato lo scrittore corsaro per via del suo andar contro corrente, aveva un pensiero fervidamente critico sul concetto di potere. Un argomento a lui molto caro che permea la sua ideologia prima e il suo cinema poi.
Pasolini era solito scrivere la parola potere con la lettera maiuscola, per personificare e poter dare una forma concreta all’oggetto delle sue avversioni.
Così scriveva.
“Questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una ‘mutazione’ della classe dominante, è in realtà una forma ‘totale’ di fascismo. Ma questo Potere ha anche ‘omologato’ culturalmente l’Italia: si tratta dunque di una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre.”
Altro modo in cui il potere veniva chiamato da Pasolini era “borghesia”: borghesia intesa come classe dominante e dirigente. Un’élite di persone che, grazie alla sua sfera di influenza sulle persone, ha soppresso i valori delle classi meno abbienti, livellandone il gusto e il pensiero.
Si tratta di capitalismo e di neocapitalismo, come sosteneva Pasolini, che “va assorbendo degli strati di proletari progrediti e riconquistando degli strati di borghesia progressista”.

La metafora animale
Porcile è l’emblema, e forse il culmine, del pensiero anticapitalista pasolininano. Si tratta di un film, aspramente criticato, per la sua denuncia sociale al potere che in questo caso è metaforizzato attraverso l’influenza negativa che hanno alcuni genitori nei confronti dei figli.
Il lungometraggio è composto da due episodi che scorrono paralleli: il primo racconta la storia di una famiglia borghese tedesca con un padre nazista e un figlio che viene divorato dai maiali, in cui il regista sottolinea il passaggio al nuovo capitalismo, plasmatore dei soggetti; nel secondo racconto, invece, ci troviamo in un mondo precapitalistico in cui è ancora possibile porsi in una dinamica antagonista ed essere sovversivi.
In Porcile i dialoghi potrebbero essere utilizzati come dei monologhi teatrali, tanto sono provocatori e monotematici.
“Il contenuto politico implicito del film è una disperata sfiducia in tutte le società storiche. Dunque anarchia apocalittica. Essendo così atroce e terribile il ‘senso’ del film, non potevo che trattarlo: con distacco, quasi contemplativo; con umorismo” sosteneva in maniera dissacratoria Pasolini.

Si assiste ad un’angosciante crisi tramite cui una nuova forma di totalitarismo si abbatte sulle masse, rendendo i soggetti dei passivi consumatori e dando vita ad una spaventosa degradazione antropologica. Il ragazzo che viene mangiato dai porci è il risultato di questo drammatico mutamento e il suo epilogo ci restituisce l’incapacità di adattarsi a una realtà in cui tutto diventa conformismo, compreso l’essere rivoluzionario.
Il sesso come atto di dominazione
Porcile anticipa, con una spietatezza, la drammaticità di Salò o le 120 giornate di Sodoma. Un film che parla della manipolazione di corpi e coscienze operata da capitalismo.
Quattro signori, che impersonano i poteri della Repubblica Sociale Italiana, della casta, della Chiesa, della legge e quello economico, fanno rapire un gruppo di ragazzi e ragazze di famiglia antifascista e si chiudono con loro in una villa di campagna.
Con l’aiuto di alcune ex prostitute, instaurano per centoventi giornate una dittatura sessuale che impone ai ragazzi l’assoluta obbedienza alle loro richieste più viziose e depravate, pena la morte.
Pasolini svela il rapporto fra la dominazione di classe e la sopraffazione sessuale, mettendo in luce la malafede di quelle interpretazioni rassicuranti della violenza che massifica la società.
Un cambiamento storico che per Pasolini trasforma anche il sesso, fino ad allora considerato una risorsa liberatrice delle classi subordinate, in un deplorevole obbligo di massa, imposto da una forza ordinatrice, a cui tutti si conformano.
Pasolini denunciava il deterioramento “culturale e antropologico” dell’Italia e delle sue classi popolari causato dalla brutalità livellatrice delle classi dominanti.
L’assioma da cui tutto scaturisce
Teorema, infine, ha l’intento di dimostrare la perdita di speranza in un mondo ormai flagellato dal consumismo. Dalla suggestione collettiva che porta il singolo ad annullarsi nella massa, una massa che ha sempre nuovi desideri materiali da soddisfare.
Il teorema di questa narrazione risiede nella formula: data una famiglia benestante, annichilita nei suoi principi borghesi, si aggiunga l’intrusione di un estraneo, che va a sovvertire tutti gli ordini posticciamente stabiliti. Ogni componente della famiglia verrà travolto da questa presenza e inizierà a sentirsi scisso tra ciò che credeva di essere e ciò che in realtà è.
Il messaggero secondo Pasolini “è il Dio che distrugge la buona coscienza, acquistata a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi”.
C’è solo un personaggio in Teorema che riuscirà a trovare la via verso la salvezza, grazie alla fede: la domestica, la proletaria della famiglia. L’unica persona in grado di ritrovare nei vecchi valori contadini quella forza di rinascere, di riconciliarsi con sé stessa e accettarsi nella sua intrinseca imperfezione, connaturata nell’essere umano.

Secondo Pasolini l’Italia è cambiata al punto tale da non poter più distinguere tra popolo e borghesia, tra classe dominata e classe dominante perché “il popolo si è andato imborghesendo ed è nata la massa”, perciò la sola rivoluzione potrebbe essere quella che porta l’ospite misterioso all’interno della matrice borghese.
Si tratta di una rivolta all’ideale di vita imposto dal potere repressivo che passa per la riscoperta del sacro e della forza travolgente della sessualità. Si conclude poi in un’alienazione totale dalle nuove metamorfosi del potere.
Un potere borghese che si mostra tollerante solo in apparenza, remissivo e accattivante, poiché non impone divieti, ma concede illusorie libertà.
Una forma totalizzante di dominio che è capace di tollerare, per poi sedare e rendere sue complici anche le più violente contestazioni.
Pasolini e la critica alla borghesia intesa come potere capitalistico totalizzante