I cieli di Alice: un sogno che si scontra con la realtà

I cieli di Alice è l’opera prima di Chloé Mazlo, una regista franco-libanese che da sempre realizza film d’animazione unendo e sperimentando diverse tecniche filmiche. È stato selezionato alla settimana della critica 2020 ed ha un tratto distintivo, quello di combinare alcuni elementi di stop-motion e di teatro con la fiction classica cinematografica.
Il titolo originale in francese è Sous le Ciel d’Alice e, come nella versione italiana, ci orienta verso il punto di vista della protagonista, mentre quello internazionale, Skies of Lebanon, pone l’accento sulla contorta questione libanese. Sono le due visioni che si scontrano poi nel film.
Alice, dall’abbigliamento e dall’aria incantata, vuole essere una citazione ad Alice nel paese delle meraviglie, ma rivisitata in chiave moderna. Alice non è più la bambina spaesata alle prese con un mondo fantastico, ma una donna che, pur nelle difficoltà del mondo reale, conserva la sua genuina purezza.
Siamo negli anni ’50, tra i monti della Svizzera vive una giovane Alice che non vede l’ora di distaccarsi dalla sua famiglia e scoprire il mondo che la circonda. Le viene offerto di lavorare come ragazza alla pari a Beirut, così coglie l’occasione per conoscere nuove realtà. Rimane affascinata da una città briosa, libera e affacciata sul futuro. Qui incontra anche Joseph, un astrofisico e un sognatore, di cui si innamora subito e con cui crea una famiglia felice. Ma arrivano gli anni ’70 che portano con sé una guerra civile e l’equilibrio di Alice perde ogni solidità, così come quello dell’intero paese. Tutto ciò che fino a quel momento era stato costruito con amore e passione viene messo a dura prova, quando non cancellato e distrutto.

Garbato e romantico ma anche spietato
La regista racconta una storia delicata, che inizialmente ci illude si tratti di una favola ma poi ci colpisce duramente mostrandoci la cruda realtà, fatta di sofferenze e di lacerazioni. Conserva, però, la sua fine poetica anche nei momenti più feroci che vengono rappresentati in modo artificioso e distaccato, come si trattasse di una pièce teatrale. Questa pellicola sognante, a tratti stravagante, è la testimonianza crudele delle atrocità causate dalla guerra sui legami personali. L’iniziale narrazione simile a quella di una favola moderna subisce un capovolgimento: ad un tratto la magia si spezza conducendo lo spettatore all’interno delle articolate dinamiche familiari. Il conflitto, tuttavia, non viene descritto con particolari limpidi ma in modo confusionario ed individuale, espediente che fa percepire al pubblico lo stato di caos in cui si trovavano i libanesi.

La guerra civile in Libano, durata ben 15 lunghi anni, è scaturita a causa di forti divisioni religiose all’interno del territorio, fra cristiani e musulmani, ed è stata alimentata da Siria e Israele che hanno deciso di perseguire i propri interessi. Un periodo lungo che ha segnato per sempre chi ha scelto di rimanere nella sua terra natale o d’adozione, dilaniata da violenza e sofferenza. Come sceglie di fare Alice che, nonostante le difficoltà, rimane a Beirut con la speranza di ritrovare alla normalità. Quella normalità che la rendeva così appagata e felice prima degli scontri intestini, ma che purtroppo è stata compromessa. Sua figlia, infatti, parte per la Francia e le persone intorno a lei subiscono continue scomparse e complicazioni. Ma la protagonista non demorde, anche quando il marito vacilla lo sprona ad avere fiducia nel futuro. Sono due sognatori, legati nell’anima, e ora si trovano a divergere per la prima volta, ma troveranno il modo di ricongiungersi.
«Avevo dei riferimenti anche concreti di persone che avevano vissuto la guerra in Libano. Ma non avrei mai saputo spiegarla a parole. Quindi mi sono documentata e chiedevo agli attori libanesi del cast precisazioni in merito agli avvenimenti storici. A un certo punto mi rispondevano tutti allora stesso modo: “Se tu pensi di aver capito la guerra in Libano, allora vuol dire che te l’hanno spiegata male!”. Questa battuta contiene una verità profonda e soprattutto credo che questo film, grazie alla sensibilità di Chloé, sia stato in grado di metterne in scena l’insensatezza».
Queste sono le parole dell’attrice Alba Rohrwacher (sobria e bravissima) che interpreta Alice e che coglie appieno il messaggio della regista: dare voce e forma ai pensieri, alle paure ma soprattutto alle speranze delle persone nel corso della guerra. Far comprendere quel che non veniva capito all’epoca, l’inconsapevolezza della gente comune, e denunciare un sistema istituzionale debole. Le scene in cui gli uomini di potere dovrebbero decidere le sorti del paese ritraggono, infatti, gli stessi politici mentre giocano al gioco delle sedie, indossando delle maschere da animali.

Lo stop-motion è poco presente, poteva essere impiegata in più frame per conferire movimento ed eterogeneità al film. La ritroviamo solo all’inizio, ad esempio quando vediamo Alice in Svizzera e i suoi genitori. Forse per distinguere nitidamente il passato dal presente: dopo aver parlato al telefono con i genitori, infatti, Alice taglia metaforicamente e fisicamente le radici da sotto i suoi piedi e inizia a vivere la sua vita. Una tecnica molto gradevole ma poco sfruttata. Troviamo anche delle scenografie teatrali inserite al posto dei paesaggi, ma anche queste vanno mano mano scomparendo, lasciando lo spazio all’unico set che è poi la casa. Nella seconda parte, difatti, il film si appiattisce, mostrando solo una crescente desolazione interiore e esteriore. Diventa così una pellicola drammatica, apprezzabile e fruibile ma senza quel brio che percepiamo all’inizio, non osa laddove poteva giocare con le tecniche cinematografiche e d’animazione.
Un ibrido delicato che mescola l’animazione al teatro, il sentimento al dramma, ma che piano piano si spegne, senza far divampare quel fuoco che percepiamo latente.
Voto 7.
