Gli school shooting movie che denunciano le stragi dei giovani

Ci sono stati degli episodi di estrema violenza che hanno scosso fortemente l’opinione pubblica di tutto il mondo, si tratta delle stragi, più nello specifico delle stragi nelle scuole.
Un tema molto caldo negli Stati Uniti dove le armi sono più facili da reperire, in quanto il secondo emendamento della costituzione garantisce il diritto di possedere armi.
Quello che le leggi federali si limitano a vietare è il possesso di armi da fuoco ai minori di 18 anni.
Molti cittadini americani credono che incrementare il numero di armi sia il sistema migliore per diminuire la violenza, perché garantirebbe più sicurezza.
Ma i numeri dicono il contrario: più armi sono presenti, più avvengono sparatorie e stragi di massa.
Il diritto stabilito dal secondo emendamento viene percepito come intoccabile, tanto quanto lo sono i diritti di espressione e di voto, motivo per il quale un americano su tre è armato.
Le armi rappresentano un elemento culturale radicato in un contesto che racchiude tradizione, patriottismo, difesa, con un’importante influenza sulla società e sulla sfera politica statunitense.
Quel che preoccupa, però, è il fatto che la facilità con cui si può acquistare un’arma diventa un trampolino di lancio per coloro che decidono di commettere delle atrocità.
Quando a commettere le stragi sono i ragazzi, la situazione diventa ancora più inaccettabile. L’attenzione si focalizza, allora, sull’educazione degli adolescenti, andando a indagare il contesto in cui sono immersi.
Il cinema non si è tirato indietro nemmeno in questo caso ed ha elaborato delle visioni personali di alcune stragi reali e fittizie.
Elephant di Gus Van Sant è un esempio delicato di shooting school movie e si ispira al massacro delle Columbine Hight School avvenuta nel 1999, vicino al Colorado.

Nel film viene narrata una sola giornata, quella della carneficina, attraverso i diversi punti di vista dei ragazzi della scuola. Le stesse scene sono riprese da differenti angolazioni e percezioni, fino ad arrivare all’epilogo, quando i due ragazzi (Eric e Alex) entrano nell’edificio armati.
Quello che vediamo è uno scorrere di immagini riportate con indifferenza, un puro susseguirsi di sequenze che ci vengono offerte per quello che sono, senza nessun giudizio.
I due killer sono lucidi e distaccati, uccidono perché hanno pianificato già tutto, la loro sete di sterminio è smisurata e premere il grilletto sembra un gioco.
Nella concitazione del momento gli altri ragazzi scappano ma in dodici moriranno, più un insegnante, e non avranno più la possibilità di scoprire cosa la vita avrebbe loro riservato.
Gus Van Sant vuole raccontare questo atto atroce ma ponendo l’accento sulla quotidianità delle vittime: adolescenti che vedono il mondo filtrato dai loro occhi, dai loro problemi e dalle loro gioie.
Una normalità che viene stravolta, invece, in Zero day di Ben Coccio, film che ci mostra la stessa strage delle Columbine ma lo fa dalla prospettiva degli assassini, Andre e Calvin.
Questo mockumentary mostra le vicende come se fossero riprese dalle videocamere dei due ragazzi, i quali si inquadrano, giorno dopo giorno, mentre si presentano, espongono il loro piano omicida e si allenano a sparare.
Entrambi ci appaiono sfrontati, sprezzanti del pericolo e desiderosi di fare del male, di annientare un nemico che per loro è rappresentato dalla scuola e dai compagni, ma che in realtà è dentro di loro.
In questo conto alla rovescia sospeso, tra ansia e rabbia, si arriva al momento della realizzazione di questo folle disegno di morte. La sparatoria ci viene mostrata dalle telecamere dell’istituto, ma non ci risparmia le urla di aiuto dei ragazzi ormai prigionieri di una sventura.
Anche qui, come dentro un videogioco, togliere la vita è facile, basta mirare e sparare. Fine. Vite cancellate per sempre.
Ma i due ragazzi sembrano felici, finalmente stanno portando a termine il loro agognato progetto.
Con Polytechnique di Denis Villeneuve ci spostiamo in Canada, una storia che sei ispira al femminicidio avvenuto al Politecnico di Montréal nel 1989, causato da uno studente misogino.

In questa strage hanno perso la vita 14 ragazze, per il solo fatto di essere donne.
Villeneuve realizza una pellicola elegante, in bianco e nero, che pone al centro le emozioni delle giovani, nei giorni precedenti al massacro.
Le ragazze rimangono dentro la stanza con l’assassino e piano piano vengono colpite dal suo fucile, con il terrore negli occhi, sono smarrite, ma si tengono per mano e si danno forza per l’ultima volta.
Una regia pulita e accurata, dall’animo gentile, che riesce a ricavare dall’orrore di un gesto così efferato e disturbato un capolavoro di umanità.
Mentre il killer si uccide con un colpo alla testa dopo aver compiuto la sua strage, una ragazza riesce a salvarsi ma la sua esistenza cambierà per sempre. La vediamo qualche anno più tardi mentre ripensa a quel giorno in cui ha perso le sue amiche e ha visto la morte molto vicina, riflettendo sulla sua gravidanza si promette: “Se avrò un maschietto gli insegnerò come si ama, se sarà una femminuccia le dirò che il mondo le appartiene”.
…e ora parliamo di Kevin.
È il titolo del film di Lynne Ramsay che non racconta la strage attuata da Kevin, di cui vediamo solo una scena confusa, ma ci presenta i pensieri della madre che ripercorre tutti i suoi momenti con il figlio per comprendere cosa ha sbagliato.
Un racconto indiretto che scava nell’intimità, quasi all’origine del male, per analizzare le cause e scoprire tutto ciò che si annida dietro i propositi disumani e omicidi di un ragazzo.
La madre sprofonda nel passato, si ricorda che appena partorito il piccolo non era in grado di amarlo e da quel giorno sono nati i conflitti tra loro.
All’inizio il pianto continuo del bambino ogni volta che si trovava con lei, poi il mutismo selettivo e in fine la ribellione ai suoi ordine e alle sue richieste. In questo rapporto così difficile troviamo scritto il disagio di un ragazzo che esprime la sua frustrazione in un gesto catastrofico.

Un male cagionato e covato che viene analizzato qui attraverso l’amore ma rimane comunque indecifrabile sia per il ragazzo sia per il genitore.
Infatti, alla domanda della madre nel carcere minorile “Voglio che tu mi dica perché”, Kevin risponde “Pensavo di saperlo, ma ora non ne sono più così sicuro”.
Passiamo invece a Klass di Ilmar Raag, siamo in Estonia, i protagonisti sono i compagni di una classe liceale che sperimenta tutta la bruttura della cattiveria e dell’esasperazione umana.
È un film che parla principalmente di bullismo, di potere e di crudeltà.
Joosep viene continuamente vessato, insultato e abbrutito da un gruppetto di coetanei perché considerato un nerd e quando un compagno di classe, Kaspar, sceglie di schierarsi dalla sua parte allora le violenze diventano più pesanti.
In questo gioco al massacro il potere è la spinta propulsiva, è una questione di orgoglio maschile, di imporsi come prevaricatore.
Anders, il capetto bullo contro Kaspar: una sfida che porta all’inevitabile declino.
Dopo le umiliazioni e gli abusi, Joosep e Kaspar decidono di porre fine alle sofferenze, facendo fuori tutti.
Ma anche quando impugnano le armi sono incerti e spaventati, sparano senza essere coscienti, sono in balia del loro disagio, vissuto e patito ogni giorno.
Sparano per sopprimere tutta la rabbia accumulata nel tempo, ma quello che provano è soltanto un senso di vuoto e di angoscia che li porta a puntarsi la pistola alla tempia.
Solo Joosep si spara, mentre Kaspar, forse ancora assetato di vita e di potere rimane immobile.
Poco prima di compiere la strage aveva chiesto perdono alla nonna, sua unica tutrice, e nel suo volto possiamo percepire tutta la voglia di riscatto e la desolazione che lo hanno portato a voler uccidere.
In quella richiesta di perdono probabilmente c’era una richiesta di aiuto mancata. Il film, infatti, mostra come gli adulti siano incapaci di gestire le difficoltà dei giovani e come siano incuranti delle loro debolezze.
Nessuna mano tesa e nessun ascolto reale dei ragazzi, i quali racchiudono la propria sofferenza in un coacervo di odio e violenza.
Terminiamo con 22 luglio di Paul Greengrass, una trama che si rifà all’eccidio avvenuto nel campo estivo per adolescenti in Norvegia, causato da un estremista di destra.
Anche se non si tratta di una scuola, le vittime sono dei giovani, precisamente settantasette.
Il regista si focalizza sui momenti di terrore dei ragazzi dalla furia omicida, in particolare sulla fuga di un ragazzo che sarà uno dei sopravvissuti.
In questa odissea per sfuggire ai colpi del pazzoide che sta compiendo l’attacco terroristico, percepiamo tutto l’orrore e la voglia di vivere dei giovani che tentano di confondersi con la natura rocciosa della scogliera norvegese.
Questi sono i film che hanno saputo comunicare direttamente al cuore dello spettatore diverse sensazioni forti, come l’amicizia, la sofferenza, la paura e l’alienazione.
La speranza rimane quella che si possano modificare le leggi sulla detenzione delle armi (dove troppo permissive), che si possano attenuare le disparità sociali e che si possa porre più attenzione al mondo dei giovani.