L’estetica ricercata del bianco e nero

“Vedere a colori è una gioia per l’occhio, ma vedere in bianco e nero è una gioia per l’anima.”
(Andri Cauldwell)
Quando si parla di film in bianco e nero si pensa al cinema del passato, senza badare a tutti quei prodotti, anche recentissimi, volutamente in bianco e nero per motivi artistici.
A partire dagli anni ‘50, ma in realtà anche da prima, il cinema scopre il colore e gradualmente tutte le sue sfumature.
Inizia così a rendere vivo anche quello che vivo non è, ma il bianco e nero rimane una certezza, dona eleganza, mistero e antichità.
Ad oggi molti cineasti ricorrono a questa scelta per questioni stilistiche e per un ritorno all’origine, riscoprendo la scala di grigi e la sua profondità.
Vediamo alcuni degli esempi più riusciti.
L’odio (1995) di Mathieu Kassovitz, con i suoi chiaroscuri, enfatizza i sobborghi francesi e la vita dei tre ragazzi sbandati che sono i personaggi principali.

La criminalità è restituita con uno sguardo quasi romantico, ma mantiene la sua intrinseca crudezza.
Il regista fotografa l’ambiente di periferia, contraddistinto dalla violenza e dal pericolo, che accompagna la quotidianità di molti giovani costretti a vivere senza una speranza nel futuro.
Anche gli iconici primi piani del protagonista, interpretato da Vincent Cassel, sono caratterizzati da una tonalità vasta di grigi, i quali donano autorevolezza alla sua sprovveduta follia.
In Polytechninque (2009) Denis Villenevue conferisce delicatezza alla tematica che affronta. Il film infatti racconta la strage avvenuta nel 1989 all’École polytechnique di Montréal, quando un venticinquenne uccise a colpi di arma da fuoco quattordici studentesse prima di togliersi la vita.

Le scene brutali della carneficina assumono una veste raffinata e gentile con il bianco e nero, quasi si trattasse di una visione onirica dell’assassino.
La serenità con cui scorre la vita all’interno dell’università viene di colpo interrotta, così dalle normali incertezze che attanagliano le ragazze, si passa all’estrema violenza di un ragazzo solo e disturbato.
La pellicola toglie i colori, ritorna all’essenziale, per restituire dignità alle vittime, giovani donne inconsapevoli di una furia omicida scaturita da una forte avversione nei confronti del movimento femminista.
Roma (2018), di Alfonso Cuaròn, è un esempio di puro estetismo: nell’ottica del bianco e nero i dettagli risaltano con maggiore contrasto dallo sfondo. Inoltre ci si può soffermare maggiormente sui volti delle persone, spesso tormentati da un malessere interiore.

La protagonista è Cleo, una domestica di Città del Messico che con il suo fare dolce e remissivo affronta le difficoltà della vita senza mai darsi per vinta.
Il suo carattere mite e premuroso è forse rappresentato dal colore non-colore che è il bianco e nero: così come quest’ultimo rappresenta una scelta mai banale nel cinema, allo stesso modo l’atteggiamento di Cleo potrebbe essere visto come indispensabile per sopportare il peso di un’esistenza difficile.
Come si trattasse di sopravvivenza. In alcune realtà, chi più riesce ad incassare è colui o colei che è più adatto a sopravvivere e ad assaporare, anche nelle piccole cose, il piacere della vita.
Toro Scatenato (1980) di Martin Scorsese gode di maggiore forza realista con il bianco e nero. Il regista ha l’intento di far tornare alla mente dello spettatore le foto e i filmati originali che ritraevano Jack La Motta.
La ricerca della verosimiglianza è una delle motivazioni principali per la scelta dell’estetica B/N.
Cosa che non accade nel recente film di Sam Levinson Malcolm & Marie (2021), in cui una storia d’amore contemporanea viene ritratta senza l’uso del colore.

Una coppia affronta tanti argomenti spinosi in una sola notte e nel farlo sviscera tutte le questioni rimaste appese, in questo caso i colori avrebbero smorzato un’atmosfera così romantica.
Una regia che gioca a ricordarci il grande Fellini, nel suo repentino cambio di inquadrature e nei discorsi più intimi dell’essere umano, ma che rimane un monologo del regista al suo pubblico. Comunque molto interessante.
Il Nastro Bianco (2009) di Michael Haneke è un film austero, sia per l’argomento che tratta sia per il modo in cui è reso cinematograficamente.
Siamo nella Germania protestante, poca prima della prima guerra mondiale, qui la vita di un villaggio viene sconvolta da una serie di avvenimenti spiacevoli e inspiegabili.
Salvo poi comprendere che si tratta di un male interno alla comunità: genitori che puniscono severamente i figli, una classe dirigente che attua i soprusi sulla gente comune e le strane perversioni degli adulti hanno generato dei bambini intrinsecamente malvagi.
Crescendo in un ambiente dannoso, i piccoli del villaggio ritengono il male come un elemento normale e necessario, attuando loro stessi delle crudeltà nei confronti dei più deboli.

In una critica alla rigidità della società tedesca, Haneke individua la causa degli atroci errori e crimini compiuti successivamente, durante le guerre, dal suo popolo.
In questa pellicola ben strutturata e soprattutto magistralmente narrata ci viene mostrata tutta la banalità del male di cui parlava Hannah Arendt.
Clerks (1994), di Kevin Smith, dissacratorio e politicamente scorretto, nonché girato con un budget irrisorio, acquista più autorità con il bianco e nero.
Per David Lynch in Eraserhead (1977) si tratta, invece, di inquietare lo spettatore con il mistero del nero.
Concludiamo con Manhattan (1979), di Woody Allen, in cui l’essenzialità del colore rende protagonista la città.