“È andato tutto bene” celebra dolcemente il diritto di morire. Ma come viene gestito il fine vita in Italia?

Non lasciarmi così. Non sono più io.
[André rivolgendosi alla figlia]

È andato tutto bene (di cui abbiamo parlato in un precedente articolo) è il film di François Ozon che è tratto dall’omonimo romanzo di Emmanuèle Bernheim, pubblicato in Italia dalla casa editrice Einauidi.
In uscita il 13 gennaio 2022 e selezionata al Festival di Cannes 2021, questa commedia drammatica racconta una storia radicale, mai violenta né brutale.
Con umorismo e distacco si fa fronte ad una situazione sfortunata, ma l’amore è costante e riesce a superare ogni limite.
Sophie Marceau nei panni della protagonista appare vitale e altruista, col suo viso pulito dosa sapientemente finzione e spontaneità nella performance. Come sostiene Ozon “Non finge mai. È là, presente, accoglie le sensazioni ed esprime la propria sensibilità”.
Una storia personale
Siamo in Francia.
In seguito ad un ictus, il padre di Emmanuèle viene ricoverato in ospedale, al suo risveglio si ritrova intrappolato in un corpo non più autosufficiente e molto indebolito.
André, egoista ma pieno di vita, decide quindi di rivolgersi alla figlia per far sì che lo aiuti a morire, ritenendo insostenibile quella situazione di limitatezza comunicativa e fisica.
Un peso per la figlia, la protagonista del film, che vive questa richiesta come un macigno.
La frase del padre “Voglio che mi aiuti a farla finita” risuona costantemente nella testa di lei, diventando un tormento per cui patire ma anche una responsabilità a cui non potersi sottrarre.
Emmanuèle subisce la morte del padre, il quale invece l’ha scelta coscientemente.

La sensazione di impotenza che prova un parente della persona che richiede di porre fine alla sua vita si traduce in una manifestazione di sofferenza, che si vive da soli, non si può condividere con gli altri.
Dietro una scelta così difficile ma necessaria percepiamo tutta la cura, il pianto, la rabbia e la frustrazione.
Soprattutto ci viene mostrato il fardello e il senso di colpa di cui si caricano i cari della persona che desidera morire, spesso costretti a rivolgersi, come nel film, a Paesi in cui è legale l’eutanasia (in questo caso la Svizzera).
Nessun piagnisteo e nessun melodramma, c’è soltanto il racconto di una storia vera, affrontata con estrema dignità da parte dei parenti, che trattengono il dolore senza mostrarlo.
I personaggi, infatti, scelgono di prendere di petto la vita, continuano ad andare alle mostre, ai pranzi, senza perdere tempo a lamentarsi o crogiolarsi nel dolore. Non ci si piange addosso, piuttosto si ride in alcuni momenti e soprattutto si riflette, chiedendosi “Come avrei reagito al posto suo?”.
Il film è un diario, scandito da date ed emozioni, ma è asciutto ed essenziale.
Sceglie di stare dalla parte della vita ma celebra la morte con un conto alla rovescia inevitabile.
Il regista si focalizza sull’esperienza personale di Emmanuèle e sul suo rapporto con il padre, non crea mai un dibattito sull’eutanasia.

Come affrontiamo il tema in Italia
Durante la visione siamo posti dinanzi a seri interrogativi sulla morte e sul fine vita, per cui è bene fare chiarezza su alcuni punti.
Cos’è il suicidio assistito?
È l’aiuto alla persona che decide di porre autonomamente fine alla propria vita.
Cosa si intende, invece, per eutanasia?
L’eutanasia non è solo aiutare qualcuno a morire ma consiste proprio nell’atto di togliere la vita ad una persona.
In sostanza richiede che ci sia un soggetto (un medico) che somministri il farmaco per via endovenosa al paziente che ne fa richiesta, mentre il suicidio assistito prevede che il medico si limiti a prescrivere e a preparare il medicinale che poi verrà assunto in modo autonomo dal paziente.
Si tratta in questi casi di eutanasia attiva, una pratica che in Italia costituisce ancora un reato, ma non lo è in Paesi come il Belgio, il Canada, la Spagna o la Nuova Zelanda.
Esiste anche l’eutanasia passiva, pratica consentita anche in Italia, in cui il personale sanitario si limita a sospendere le cure salva vita.
Dopo il caso di dj Fabo, è stato deliberato che il suicidio assistito, inteso come assistenza di terzi nel porre fine alla vita di una persona malata, è legittimato, in presenza di quattro condizioni: se il paziente è affetto da una patologia irreversibile, è costretto a patire gravi sofferenze fisiche o psichiche, ha piena capacità di prendere decisioni consapevoli e se la sua sopravvivenza dipende da cure esterne.
L’eutanasia attiva ha tante ragioni a favore, quali la libera scelta, la qualità della vita e la dignità, ma trattandosi di una questione etica ne ha anche altre che dividono il pensiero dei singoli. Tra queste ci sono la religione, la piena consapevolezza e i desideri della famiglia.
Una scelta che divide. Un tema complesso ma che sarebbe giusto affrontare in un paese che si reputa civile.
Come mostrano i casi italiani più famosi sul fine vite, ad esempio quelli di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, si sono generati accesi dibattiti che non hanno ancora portato ad una legge.
Entrambi in stato vegetativo e tenuti “in vita” da un macchinario, sopravvivevano in una condizione al limite, a metà tra la vita e la morte. Così è stato loro interrotto il trattamento di sostegno vitale artificiale, provocando lunghe vicende giudiziarie a carico di chi si è preso la responsabilità di farlo.
“Vivere non è sopravvivere” dice André nel film di Ozon ed ha ragione, se privato di ogni vitalità chiunque ha il diritto di scegliere le sorti del proprio destino. E quando non può perché tenuto in vita da una macchina, anche un suo affetto stretto dovrebbe poter decidere di staccare la spina, lasciando intatta la dignità della persona che si trova nel limbo.

Ad oggi in Italia sono state depositate 1 milione 200mila firme per chiedere un referendum sull’eutanasia legale, una cifra che va ben oltre la soglia di firme necessaria (500mila) per la richiesta di una consultazione popolare.
Dopo anni di battaglie, casi sotto l’attenzione dei media e associazioni a favore dell’eutanasia legale (Associazione Luca Coscioni) rimaniamo nell’attesa di una presa di posizione. Il 15 febbraio la Corte Costituzionale si pronuncerà sull’ammissibilità del referendum sull’eutanasia, nella speranza che lasci alle persone la libertà decisionale sulla propria vita o quella dei propri cari.
Perché, come dice nel film la dottoressa ad Emmanuèle, “L’importante è che riceva affetto” non basta, non si può accettare come rimedio alla sofferenza e alla dignità umana.
Scegliere di morire è un diritto.
“Hanno detto che è andato tutto bene” dice Emmanuèle alla sorella dopo aver parlato con la signora svizzera che ha permesso la morte del padre, lanciando un messaggio di positività. E davvero va tutto bene quando si pone fine alle sofferenze terrene di chi purtroppo sperimenta, ancora in vita, la morte.
La morte è insita nella natura umana, bisogna saperla accettare e conviverci, anche se risulta molto complesso e doloroso. Ma non si può andare contro natura e quindi come si gioisce per la nascita di una nuova vita, allo stesso modo si deve abbracciare la morte, anche quando si tratta di una scelta atroce.