Spider-man: Homecoming Efficace rilancio o film sopravvalutato?

YouTube. 10 marzo 2016. Viene pubblicato il secondo trailer ufficiale di Captain America: Civil War, ma al pubblico interessa ben poco del conflitto ideologico tra Steve Rogers e Tony Stark, del ruolo del Soldato d’Inverno, o della conclusione dell’arco narrativo della Sentinella della Libertà: l’attenzione di tutti è focalizzata sugli ultimi secondi del filmato, nei quali fa la sua prima apparizione colui che sarebbe divenuto in seguito una delle più grandi star del Marvel Cinematic Universe (MCU).
Poco importa se non è lui il protagonista del film, poco importa se nel filmato dice letteralmente solo due parole: Spider-man ha appena fatto il suo ingresso tra gli Avengers, e il mondo va in estasi.
Certo, ovviamente quella prima apparizione non fu un fulmine a ciel sereno: dopo l’annuncio dell’accordo tra Sony e Disney per l’introduzione del personaggio nel MCU, della scelta del giovane Tom Holland per interpretarlo, del debutto del personaggio in Civil War, e soprattutto del suo film stand alone previsto per il 2017, era solo questione di tempo che la nuova iterazione di Peter Parker si rivelasse completamente agli occhi del pubblico, ma era inevitabile che questo avesse una reazione così forte.

Ancora prima che il primo film dedicato allo Spider-man di Tom Holland uscisse nelle sale, questo rappresentava un traguardo significativo per i Marvel Studios: per la prima volta un personaggio i cui diritti di sfruttamento appartenevano ad un’altra casa di produzione, e che fino a soli tre anni prima aveva un’altra saga cinematografica in corso, tornava sotto l’egida della Casa delle Idee… E non un personaggio qualunque, ma il simbolo dell’universo Marvel.
Certo, i film non vanno giudicati solo in base alle aspettative del pubblico, ma dall’annuncio del titolo a quello della partecipazione al progetto di Michael Keaton nei panni dell’Avvoltoio, passando per il rilascio del primo trailer (il cui successo fu tale da spingere Sony ad annunciare lo sviluppo di un sequel già a dicembre 2016), quello che andava definendosi mese dopo mese era un successo praticamente già annunciato, tanto che furono ben pochi a sorprendersi quando il 6 luglio 2017 il film diretto da Jon Watts trionfò al botteghino e fu acclamato dalla critica come il miglior film di Spider-man dopo “Spider-man 2” di Sam Raimi.
Ma è davvero così? “Spider-man: Homecoming” è davvero un concentrato di qualità degno di competere con i primi due film con protagonista Tobey Maguire? Oppure si tratta di un prodotto sopravvalutato e mediocre, il cui successo è dovuto esclusivamente ad una efficace campagna marketing e all’entusiasmo del pubblico nel vedere finalmente l’Arrampicamuri volteggiare tra i grattacieli della New York degli Avengers?
Diciamocelo chiaramente, quella di Tom Holland è un’ottima interpretazione: come Spider-man, restituisce alla perfezione su schermo le movenze, la fisicità, la simpatia e il carisma che contraddistinguono la controparte cartacea, mentre come Peter Parker riesce a svecchiare lo stereotipo del secchione sfigato che Tobey Maguire incarnava fin troppo fedelmente, senza però andare totalmente fuori strada come Andrew Garfield in “The Amazing Spider-man”.
Il problema di questo Spider-man non è l’interpretazione dunque, ma la scrittura.
Laddove il Peter Parker classico è un personaggio estremamente tormentato, che vive il suo ruolo di eroe come un peso che cozza inevitabilmente con la vita che un ragazzo vorrebbe e dovrebbe vivere, che odia essere Spider-man, ma sa che deve esserlo per il bene di tutti, anche se questo significa rinunciare alle piccole grandi gioie della sua età, quello che Tom Holland interpreta per buona parte del film appare come un autentico mitomane: mal sopporta la sua routine quotidiana, arriva a meditare di abbandonare gli studi per essere Spider-man a tempo pieno, e il suo obiettivo sembra essere più il brivido dell’avventura e il riconoscimento da parte della gente e degli altri eroi, in particolare il suo mentore Iron-man, piuttosto che il conseguimento del bene comune, e solo un clamoroso fallimento (e una bella strigliata da parte di Tony Stark) lo spingerà ad agire in maniera effettivamente responsabile e genuinamente interessata alla salvaguardia della gente.
Bisogna però essere obiettivi, il Peter Parker presentatoci nella prima metà di film è volutamente acerbo: la scelta di allungare nelle tempistiche la sua maturazione è stata precisa e ben ponderata, volta in parte a raccontare in modo più completo il cambiamento di Peter Parker da comune studente liceale ad eroe di New York, in parte a differenziarsi dalle due precedenti versioni cinematografiche del personaggio, e un po’ anche per diluire a tal punto la sua storia da rendere necessario il maggior numero possibile di film per raccontarla (anche gli sceneggiatori devono portare a casa la pagnotta).
In un certo senso lo Spider-man che vediamo sullo schermo per la maggior parte del film, è quello di The Amazing Fantasy n.15, quello pre morte di zio Ben, quello che si esibiva negli incontri di wrestling e nei programmi televisivi, quello che non era mosso da alcuna motivazione oltre a fare soldi e mettersi in mostra, quello che non aveva ancora imparato che da grandi poteri derivano grandi responsabilità.
Insomma a conti fatti la scelta (molto) creativa di Jon Watts apparirebbe tutto sommato condivisibile, se non fosse per un dettaglio cruciale: questa non è la prima apparizione dello Spider-man di Tom Holland, bensì la seconda, e, per quanto ironico ed esibizionista, il personaggio che aveva esordito in Civil War sembrava avere una parvenza di maturità e senso di responsabilità, e soprattutto aveva già vissuto il dramma della morte del tanto compianto quanto mai nominato zio Ben.

Dunque per quanto la scelta del regista sia stata volta a mostrarne la maturazione nel corso del suo stand alone, tale scelta ha di fatto comportato una regressione del personaggio di Peter Parker rispetto alla sua prima apparizione.
Certo, qualunque ragazzino di quell’età si monterebbe la testa dopo un’esperienza come quella vissuta dal nostro protagonista, ma è altrettanto certo che una ramanzina di Iron-man non potrà mai rappresentare uno stimolo forte quanto la perdita dello zio.
E a proposito di Iron-man, questo ci permette di collegarci a un altro grande difetto di Spider-man: Homecoming: la sua dipendenza dal resto del MCU.
Quando si parla di film facenti parte di un universo narrativo, è inevitabile ritrovarsi davanti dei rimandi ad altri film, ma per fare in modo che il franchise non finisca per fagocitare il film visto nella sua unicità, e che questo mantenga una propria identità, è necessario che gli eventi, l’atmosfera e le peculiarità del film in questione siano distaccati da quelli di altre saghe facenti parte dello stesso franchise.
Ecco, Spider-man: Homecoming è l’opposto: in questo film ogni cosa, e dico proprio ogni cosa, dipende strettamente da eventi avvenuti in altri film del MCU, e sebbene non siano fisicamente nel film (con la sola eccezione del Tony Stark di Robert Downey Jr., il cui contributo si limita comunque a sole cinque scene) la presenza degli Avengers risulta costantemente percepibile e opprimente.
Chi sono gli antagonisti del film? Ex operai che hanno perso il lavoro a causa di Tony Stark, e che ora rubano reperti legati alle battaglie degli Avengers per fabbricare armi da vendere al mercato nero.
Qual’è l’obiettivo di Spider-man? Entrare a far parte degli Avengers.
Dove si svolge la battaglia finale? Su un aereo contenente l’attrezzatura degli Avengers dirottato dall’Avvoltoio.
E via dicendo…
La dipendenza delle vicende di Spidey da quelle del team più famoso di casa Marvel finiscono inevitabilmente per penalizzare questa versione del Tessiragnatele, che emerge quasi come un eroe minore, incapace di uscire dall’ombra di personaggi che, dal punto di vista mediatico, sono molto meno importanti di lui.
E se da un lato Spider-man non riesce ad emergere come il grande eroe che dovrebbe essere, dall’altro lato il suo alter ego Peter Parker non riesce mai davvero a sembrare l’emarginato che tutti abbiamo in mente… O per essere più precisi, il film ci dice che è uno sfigato, ce lo ricorda costantemente, ma non riesce mai a farcelo percepire davvero come tale, però stavolta la colpa non è della scrittura del protagonista, bensì di quella dei suoi comprimari: poiché ogni singolo personaggio legato all’ambiente scolastico del nostro protagonista (da una Liz Allan fin da subito attratta da Peter ad un Flash Thompson più interessato ad ostentare i risultati scolastici che i muscoli) viene fortemente alleggerito rispetto alla controparte certacea, percepire il disagio vissuto da Peter Parker nella sua quotidianità è praticamente impossibile, ed è forse questa la più grande mancanza del film.
La storia di Spider-man è prima di tutto una storia di rivalsa, la storia del brutto anatroccolo che diventa cigno, la storia di un ragazzino pieno di dubbi e insicurezze che gradualmente matura fino a diventare un uomo in grado di affrontare minacce impossibili, e non riuscire a raccontare questo cambiamento significa non riuscire a raccontare in modo adeguato questa storia.
La trama procede tra altri numerosi difetti come una zia May priva di spessore piazzata lì solo per le facilissime battute sulle milf, l’eccessiva dipendenza del nostro eroe dalle attrezzature high tech, o la presenza di dinamiche tipiche di Miles Morales, la versione Ultimate del personaggio, che però ben poco si sposano con il classico Peter Parker, per poi giungere ad una conclusione finalmente fedele a quello che è lo spirito del personaggio: Peter Parker non ha più le sue attrezzature high tech, né l’appoggio di Iron-man, ed è solo contro un nemico pericoloso e pronto a tutto che ha scoperto la sua identità segreta, ma non intende lasciare che l’Avvoltoio possa effettuare il suo più grande colpo indisturbato, anche se questo significa rinunciare alla sua ragazza Liz.
Sebbene anche qui non manchino momenti ai limiti del demenziale (la sequenza in cui Peter cerca di guidare la macchina di Flash meriterebbe di essere rimossa dal film con le cesoie), vedere il nostro protagonista senza niente da guadagnare e mosso esclusivamente dal suo senso di responsabilità, affrontare l’Avvoltoio dopo essersi liberato dalle macerie sotto cui lo ha sepolto (scena che ripropone fedelmente su schermo eventi e soluzioni visive tratti direttamente dai fumetti) è una gioia per gli occhi.
Il tutto è poi coronato dal finale in cui Peter decide di rinunciare ad entrare negli Avengers, per essere semplicemente un amichevole Spider-man di quartiere, una decisione non solo coerente con l’anima del personaggio, ma che appare anche pesantemente influenzata dalla storia e dal confronto con l’Avvoltoio, che emerge come uno dei migliori villain del MCU: a distinguerlo da tanti altri antagonisti deludenti e privi di spessore che popolano questo universo cinematografico sono il carisma di Michael Keaton, rimasto intatto dai tempi di quel primo leggendario Batman di Tim Burton che interpretò nel lontano 1989, e delle motivazioni sorprendentemente umane e radicate nel quotidiano, ben distanti dalle semplici brame di dominio o distruzione sommaria del supercattivo classico.
Ma sono davvero bastati solo uno Spider-man liceale dalla battuta sempre pronta, un buon villain e un finale coerente con lo spirito del personaggio per compensare il grande numero di difetti riscontrabili durante la visione? Cosa ha fatto davvero il successo del film di Jon Watts (a detta di chi vi scrive, nettamente inferiore al suo seguito Spider-man: Far From Home) ? Quali elementi gli hanno permesso di fare davvero presa sul pubblico?
Beh… una possibile risposta può essere che sebbene questo film non sia per la maggior parte del tempo fedele a quella che è l’anima del personaggio, è riuscito comunque ad sortire sul pubblico lo stesso effetto degli albi a fumetti che lo vedono protagonista: l’immedesimazione.
Così come lo Spider-man fumettistico fu creato affinché vi si potesse rispecchiare la generazione di teenagers degli anni ‘60, la generazione della Controcultura, del Sessantotto e del movimento Hippie, lo Spider-man di Tom Holland è costruito in modo che il pubblico giovanile possa identificarsi in lui: da un ambiente scolastico multietnico, maggiormente realistico per il Queens dei nostri tempi, alle varie forme d’intrattenimento radicate nel web, passando per riferimenti alla cultura popolare, durante la visione veniamo catapultati nella quotidianità di un adolescente, del quale ci ritroviamo a vivere in prima persona le sensazioni e le esperienze, le gioie e i dolori, le aspettative e le paure, in un percorso di formazione che lentamente, scena dopo scena, porta avanti la maturazione del personaggio fino alla conclusione, nella quale ritroviamo una figura molto più vicina al classico Spider-man, ma non per questo più distante rispetto a quella generazione di spettatori, adolescenti che da bambini furono spettatori del primo Iron-man, ma che adesso hanno trovato in Peter Parker un eroe nel quale riconoscersi mentre, proprio come lui, procedono verso un futuro sempre più imprevedibile.