Mare Nostrum, che sei nei cieli
C’è un mare Mediterraneo, un grande lago, una fortezza, un luogo in cui tutti i più importanti popoli del mondo si sono incontrati, dove la civiltà dell’antideserto ha formato una grande patria, etnicamente indistinguibile, una dimora antica. Per utilizzare le parole di Camus “Un bacino che unisce una decina di paesi”.
Il Mediterraneo ha visto uomini che strepitano nei caffè-concerto in Spagna, quelli che gironzolano nel porto di Genova, sui moli di Marsiglia. Quando si viaggia in Europa, scendendo verso l’Italia o la Provenza, si ritrovano, con un sospiro di sollievo, quella vita intensa e colorata che ben conosciamo, un elemento estraneo a coloro che vivono nelle rigide lande dell’Europa centrale, dall’Austria alla Germania, con quella strana angustia, quell’inquietudine sorda che abita i loro corpi. Non sanno veramente in che modo lasciarsi andare. Non conoscono realmente la gioia, così diversa dal riso; a loro noto. È perché non abitano il Mediterraneo, non sono “in mezzo al mare”, come anche ci suggerisce la complessa denominazione etimologica araba del termine (al-Baḥr al-Abyaḍ al-Mutawassiṭ, ossia “Mar Bianco di Mezzo”), quella turca (Akdeniz, “Mare Bianco”), quella albanese (Mesdhe, “Mare in mezzo alle terre”) o ebraica (Hayam Hatikhon, “Il mare di mezzo”).
Il Mare Nostrum, quello famoso dell’età d’oro dell’Antica Roma, è l’archetipo di altri mari dalle caratteristiche analoghe, l’essere circondati da più continenti o subcontinenti (vedi, ad esempio, il Mar Glaciale Artico o il Mediterraneo Americano) e ritrovare, oggi, l’importanza di questo nodo economico-strategico e turistico deve riguardarci tutti, essere nell’agenda politica di tutti noi.
Il Mediterraneo è uno splendido paradigma per gli altri, che, come visto, dà il nome ad altri mari del globo ma noi, in quanto europei bagnati da questo mare interno, al contrario, lo stiamo pian piano mettendo in secondo piano.
Nella storia della sua esistenza, è probabilmente la prima volta che viene snobbato in questo modo: un ponte tra territori, la culla di alcune tra le più antiche civiltà del Pianeta, nonché scenario principale della storia e della cultura della civiltà non solo Occidentale, ma anche del Vicino e Medio Oriente. Nei luoghi del Mediterraneo, l’agricoltura e l’allevamento si diffusero fin dal 6000 a.C. e grazie all’azione catalizzatrice cretese e la civiltà minoico-micenea iniziarono i flussi commerciali con le coste dell’Egitto, del Libano e di tutti quei “popoli del mare” che vivevano grazie al e di Mediterraneo.
Da sempre hotspot di biodiversità, il nostro mare è un patrimonio da tutelare: 17,000 specie diverse, da cui si deduce che contiene circa il 7,5% delle specie mondiali, un crimine non interessarsene, un harakiri farle del male con la sempre più impattante speculazione edilizia e la pesca intensiva.
Un Mediterraneo che ci siamo rassegnati a guardare come “altro”, soprattutto come al mare “di altri”, appartenente “agli altri”. Una ricchezza, frutto di milioni di anni di adattamenti ed evoluzione, legata a doppio filo con equilibri delicati che invece di preservare stiamo distruggendo consapevolmente con l’indifferenza.
Neanche al nostro peggior nemico potevamo riservare un trattamento simile, lo stiamo perpetrando all’amico di sempre, quello che ci ha spesso salvato, aiutato, fornito le materie prime per tirare avanti e gli stiamo voltando le spalle, senza apparente motivo, quando gli altri, i conoscenti del Mediterraneo, coloro che non sono bagnati da questo mare di mezzo, lo bramano e ci vedono ancora del potenziale.
Cerchiamo di mantenere uno sguardo vivo intorno al nostro vicinato, cercando di non guardare troppo lontano, perché non serve. È come se ci fossimo paradossalmente abituati alla ricchezza perché la fine che stiamo facendo fare alla nostra risorsa idrica più strategica possibile non può e non deve essere quella definitiva, quella di essere relegata a mare secondario.
Un amico fedele non se lo merita. Figuriamoci il Mar Mediterraneo.
Sia santificato il suo nome.