Lavoro per tutti, cura per tutti

Robots che accudiscono gli anziani, che impastano e cuociono la pizza napoletana, che coltivano campi, che ci seguono per strada trasportando carichi pesanti. Non è un’utopia/distopia uscita dalla penna e dal genio di Isaac Asimov o Aldous Huxley. Trovate queste invenzioni elencate nell’ottimo articolo del professor Marcello Lando, pubblicato per la rivista Meridiani Rotariani nel numero di Gennaio/Febbraio, significativamente intitolato “Il futuro del lavoro e i lavori futuri”. L’ingegnere cerca ipotizzare le conseguenze della quarta rivoluzione industriale per il mondo del lavoro, focalizzandosi sul fenomeno dell’Industria 4.0 come ‘segno’ del cambiamento epocale. Riporto per intero la definizione di Industria 4.0 presente sul sito del Ministero dello Sviluppo Economico: “L’espressione Industria 4.0 è collegata alla cosiddetta “quarta rivoluzione industrial3. Resa possibile dalla disponibilità di sensori e di connessioni wireless a basso costo, questa nuova rivoluzione industriale si associa a un impiego sempre più pervasivo di dati e informazioni, di tecnologie computazionali e di analisi dei dati, di nuovi materiali, componenti e sistemi totalmente digitalizzati e connessi (internet of things and machines)”.
Come in tutte le grandi trasformazioni, le forme e le conseguenze dell’ennesima rivoluzione industriale ci saranno chiare ex post e probabilmente saranno i nostri figli a poterle valutare complessivamente. Eppure un annoso dilemma è già entrato nel dibattito pubblico: la scomparsa di posti di lavoro a seguito dell’avvento dei robots sarà l’esito di un processo inarrestabile, o è soltanto una tappa di una trasformazione che porterà alla riqualificazione e all’impiego dei futuri disoccupati? Sgombrando il campo dai catastrofisti e dagli ottimisti, in questa sede voglio analizzare la suggestiva risposta di Jennifer Nedelsky, filosofa della politica all’università di Toronto. Perché suggestiva? Perché la Nedelsky ritiene parziale e mal posta la seconda parte della domanda che, a suo parere, dovrebbe essere riformulata più o meno così: …o è soltanto una tappa di una trasformazione che porterà ad una diversa gestione del tempo del lavoro, da alternare con il tempo della cura?
Lavoro e cura sono due dimensioni fondamentali dell’esperienza umana, ma la seconda viene rilegata in uno spazio marginale nel dibattito pubblico come in quello privato. Riprendendo le tesi della Nedelsky, definisco la cura come una forma di attività rivolta al ben-essere di una persona, che può essere un nostro parente, vicino, amico o persino noi stessi. Generalmente le parole lavoro e cura vengono accostate nel cosiddetto mercato della cura, cioè nella domanda e offerta dei servizi di badanti e domestiche per la cura degli anziani, dei malati o della casa. Nedelsky critica questo sistema da tre punti di vista: 1) gli orari di lavoro sono insostenibili per le famiglie, generando enormi quantità di stress e costringendo gli individui a sottrarre tempo alla vita familiare; 2) la dimensione della cura è considerata inferiore a quella del lavoro, nascondendo diseguaglianze di genere (la cura è spesso un obbligo delle madri), oppure in un’ottica sotto-lavorativa, come nel caso delle badanti e domestiche; 3) i politici e law-makers sono insensibili alla dimensione della cura, perché non fa parte del loro vissuto quotidiano nel quale essa viene comprata o demandata ad altre persone. Il punto 2 è particolarmente caro alla Nedelsky, che fa delle questioni femministe e di genere uno dei temi principali della sua riflessione. Qual è allora la sua proposta per ripensare la ripartizione del tempo tra lavoro e cura, e rispondere così anche alla trasformazione determinata dalla quarta rivoluzione industriale?
Lavoro per tutti, cura per tutti. Dietro questo slogan si cela un progetto politico-sociale ben definito, sebbene in continuo aggiornamento. L’idea è che ogni persona debba dedicare settimanalmente 30 ore al lavoro e 12 ore alla cura, di se stesso come degli altri. Conseguentemente, la società dovrà essere riorganizzata per permettere ad ognuno di dedicarsi ad entrambe le attività. In primo luogo, lo stipendio guadagnato in 30 ore di lavoro dovrà permettere una vita dignitosa per gli individui e le famiglie. L’avvento dell’industria 4.0 e del lavoro robotizzato, pertanto, potrà essere riconsiderato e gestito a partire da questi parametri. In secondo luogo, a livello dell’immaginario sociale perderà valore l’idea del lavoro full-time, laddove il full assume spesso l’idea di assorbimento integrale della vita di una persona, e guadagnerà riconoscimento e stima sociale l’attività della cura. L’aggettivo full diventerà allora sinonimo di un’esperienza umana integrale, risultato dalla sommatoria tra i tempi del lavoro e quelli della cura, senza dimenticare il tempo libero. Il settore chiave dove diffondere, gradualmente e senza forzature, questa nuova prospettiva sarà quello dell’istruzione. Aver cura di qualcosa o di qualcuno, infatti, è una virtù, cioè una qualità che si può sviluppare soltanto con l’abitudine e la pratica ripetuta. In terzo luogo, dovrà essere incoraggiata la creazione di ‘comunità di cura’, cioè di momenti e spazi di aggregazione dove le persone potranno riunirsi e deliberare su problemi, prospettive e nuove applicazioni nel tempo della cura. La democrazia deliberativa e partecipativa è infatti uno dei principali strumenti per lo sviluppo di questa riforma sociale.
Ho preferito esporre l’idea della Nedelsky nella sua radicalità perché, pur non essendo utopica, è di certo una prospettiva che mette in discussione molti degli assunti su cui si reggono le nostre società. Una precisazione è però d’obbligo. “Lavoro per tutti, cura per tutti” non è uno slogan dietro al quale si cela un progetto totalitario. Come specificato più volte dalla filosofa canadese, infatti, la riforma da lei pensata è una delle possibili soluzioni dei problemi sociali attuali e del futuro, ma non l’unica. Ancor più importante, il cambiamento nelle norme sociali da lei auspicato non dovrà essere il frutto inevitabile di un’opera di ingegneria sociale dall’alto (schema Top-Down) quanto un percorso condiviso e liberamente scelto dai cittadini (schema Bottom-Up). La scommessa di fondo del progetto della Nedelsky sta nel credere che i cittadini sentiranno come più ‘adatta’ ai loro convincimenti morali fondamentali e alla loro quotidianità una riforma che coinvolga l’esperienza della cura così come quella del lavoro. Se l’uguaglianza è il pilastro fondamentale su cui si regge questo progetto, la libertà ne è condizione necessaria e irrinunciabile.
Un mese fa Jennifer Nedelsky è stata ospite della Lumsa per un momento di discussione e confronto con i dottorandi in Economia Civile. Durante il dibattito, un dottorando ha invocato il principio ‘dimenticato’ della rivoluzione francese, la fraternità, come dimensione chiave per la riforma proposta dalla Nedelsky, che, come abbiamo visto si regge già sui pilastri della libertà e dell’uguaglianza. Affinché la storia del ‘lavoro per tutti e cura per tutti’ non rimanga una tra le tante storie proposte nel dibattito pubblico, infatti, è importante che le persone abbiano la possibilità di fare esperienza concreta, quotidiana, condivisa, di che cosa voglia dire ‘aver cura’ di qualcosa o qualcuno. Naturalmente quel dottorando ero io. Ho iniziato e ri-iniziato ad ‘aver cura’ di me stesso e di altri, dedicando qualche ora della giornata a questa particolare dimensione della fraternità (o ‘sorellanza’, per le donne, come mi ha fatto notare la Nedelsky). Vi invito a fare lo stesso. In alternativa, compratevi un robot.