Afghanistan: un’interpretazione storica e politica
Soffia il vento sull’altopiano iranico fino alle vette dell’Hindu Kush. Nell’immobilità solo apparente, il ticchettio della storia scandisce anche il destino dell’Afghanistan, terra di mezzo e tomba degli imperi. I sogni di dominio del Raj britannico, le mire espansionistiche degli zar russi ed infine la pax degli eredi del dominio talassocratico, l’aquila americana, hanno ceduto all’indomabilità orgogliosa dell’ex impero della dinastia pashtun dei Durrani, tassello strategico aperto alle meraviglie del subcontinente indiano, terra mai soggetta alla diretta dominazione coloniale.
Nell’apparenza immobile delle vette dell’ Hindu Kush, ombre fisse come l’antico codice di comportamento pashtunwali, anche la roccia viene modellata dallo scandire delle raffiche ventose nelle notti senza nembi. Entità dai tanti volti, l’unitarietà dell’Afghanistan è fatto recente ed in parte incompiuto, frutto della forza imposta prima dalla dinastia pashtun Abdali con la costituzione dell’impero alla metà del XVIII sec, ma soprattutto con la forza delle armi dal vero padre dell’Afghanistan moderno, Abdur Rahman, emerso dalle ceneri della dinastia Mohammedzai dalla seconda guerra anglo-afghana.
Un imperialismo interno mirato a debellare l’autonomia del mosaico regionale che compone la fluida entità dell’essenza afghana. Territori legati a centri urbani storicamente soggetti a sovranità diversificate e molteplici, dall’Est dove forte è stata l’influenza persiana su Herat, centro culturale e commerciale incluso nel passato controllo safavide, al sud di Kandhar, capitale di un possibile stato pashtun, sogno diviso della mai accettata ed imposta linea Durand britannica con il Pakistan, fino alla porta del nord asiatico di Mazar-i Sharif, erede della scomparsa Battra-Balkh, città in cui risuonano le origini del nome di Zaratustra. Infine, Kabul, divenuta capitale per la sua posizione e centro di irradiazione di una cultura urbanizzata rispetto al lento correre dei processi di cambiamento delle campagne.
Afghanistan e il mito dell’ingovernabilità
Il mito dell’ingovernabilità afghana e della dissoluzione di entità dinastiche e politiche in grado di legittimare il proprio potere è frutto avvelenato nato storicamente nella fase conclusiva della dominazione sovietica. Il timore islamico della fitna da un lato e il riconoscimento del sistema dinastico turco-persiano, differentemente dall’egualitarismo di accesso al potere tipicamente arabo, svolse, al contrario, sempre un ruolo di ridimensionamento di possibili rivendicazioni separatiste etno-statuali sul modello jugoslavo.
La legittimità del potere afghano segue la regola dinastica della limitazione della competizione per la guida del Paese solo ad un limitato gruppo elitario, come dimostrato dall’attivismo del clan pashtun dei Ghilzai, forza di opposizione pronta a scendere in battaglia contro i nemici esterni ma altrettanto pronta a riconsegnare il potere nelle mani dei clan pashtun Durrani, ritenuto elemento in grado di assicurare la stabilità del governo.
Sarà il conflitto senza tregua dei Mujaheddin e dei signori della guerra, alla fine dell’invasione dell’URSS, ad affermare la possibilità di un superamento violento di tali meccanismi di auto-controllo interno attraverso una lunga mobilitazione totale di tutte le forze del paese. Come spiega splendidamente Thomas Barfield nel suo libro “Afghanistan”, edito da Einaudi, quegli strumenti di difesa contro la dominazione di forze esterne, così efficaci nel piegare velleità coloniali, si rivolgeranno, in una forma di reazione auto-immune, contro le stesse fondamenta storica delle regole di gestione del potere afghano.
L’altro elemento di legittimità da considerare, in una forma di stampo schmittiano, è rappresentato dalla capacità stessa di garantire la decisione politica, garantendo stabilità e capacità di comando. Poggiandosi su questo secondo punto si assicureranno, con corrente alternata per l’intervento Usa, il potere i talebani, gli studenti delle madrase del deobanditismo di origine pakistana, giovani cresciuti nei campi profughi proprio sulla faglia della linea Durand che separa Kabul da Islamabad ed emersi come elemento stabilizzatore delle lotte intestine tra i Signori della guerra.
Gli errori dell’amministrazione USA
Gli errori, sotto tutela americana dopo il 2001, dei governi Karzai prima e Ghani poi, saranno quelli di ripensare la politica afghana secondo un modello centralizzato che aveva avuto il suo successo solo in una specifica fase storica e a costo di una vera e propria guerra armata da parte del già citato Abdur Rahman e dei suoi eredi nel XIX sec.. Solamente una forza dotata di forte legittimità e con una capacità di comando altamente efficiente avrebbe potuto imporre nuovamente, dopo la lunga mobilitazione regionale durante e post invasione sovietica, un governo con tale carattere. Esempio di tale atteggiamento centralizzatore è stato il testo costituzionale del 2004 che in gran parte ricalcava le forme monarchiche del passato afghano.
L’effervescenza collettiva della guerra dei Mujaddhin aveva di fatto impossibilitato un ritorno a tale modello di governance politica, favorendo maggiormente un sistema di tipo federale, inviso in quanto ritenuto prodromo di una possibile balcanizzazione afghana. Storicamente in realtà le varie aree regionali ed etniche erano riuscite a convivere proprio alla luce di una forma di autonomia dal governo centrale, frutto della scelta dei reggenti di Kabul di non intervenire in modo capillare e diretto, sia dal punto di vista dei processi di modernizzazione che dell’autorità governativa, in tutto il territorio afghano.
Dimostrazione storica ne è stato la capacità governativa del lignaggio collaterale pashtun dei Musahiban impostasi dopo il 1929, in grado di attuare processi di cambiamento in modo graduale, seppur lento e per certi versi stagnante, applicando una strategia di attenzione alle diversità e alle resistenze culturali regionali e delle campagne tradizionaliste.