13, o del suicidio messo a reddito

L’arte è una cosa molto seria. Abituati come siamo a considerare la realtà ‘a compartimenti stagni’, semplice aggregato di blocchi non comunicanti, abbiamo relegato l’arte in un posto marginale, oggetto di contemplazione disinteressata nei musei o nelle collezioni private. E tuttavia l’arte interessa e ci interessa molto piú di quanto possiamo immaginare. L’arte ad esempio è intimamente collegata alla politica, come sapeva bene Platone, che ne considerava il potenziale distruttivo per la sua Repubblica. Ancora, l’arte è schiava, alleata o nemica della verità. Periodi storici venivano e vengono rappresentati da una singola opera d’arte, un microcosmo in un cosmo in continua evoluzione. A dispetto di queste altisonanti affermazioni, al limite dello scivoloso crinale della retorica, in quanto segue mi prefiggo uno scopo modesto, legato all’attualità.
Qualche anno fa, in una delle sue prime lezioni, un grande filosofo (che non nominerò) disse che chi oggi volesse cercare artisti e filosofi dovrebbe rivolgersi al mondo degli sceneggiatori, e di film e di serie tv. Affermazione provocatoria, ma non banale. La riascoltiamo spesso nei dibattiti sui contenuti sociali dei film e delle serie tv, o negli interminabili dibattiti sui social network. In questi giorni l’attenzione è focalizzata sui contenuti della serie 13 Reason Why, tra cui spiccano imtemi del suicidio, del bullismo e della violenza sessuale giovanile.
Ho esitato a scrivere questo articolo, perché la cattiva pubblicità è pur sempre pubblicità, e la fine che farò è quella della mosca intrappolata nella tela del ragno. Ma veniamo al dunque, senza ulteriori ritardi. La mia tesi è che il dibattito ‘sociale’ nato attorno a questa serie tv sia superfluo, uno spreco di energie emotive ed intellettuali. Perchè? Perché dei grandi umanisti e psicologi che si sono espressi sulle vicende narrate nelle serie, nessuno ha sottolineato l’unico punto realmente importante: il suicidio, il bullismo e la violenza sessuale giovanile sono stati messi a reddito. Se non gli sceneggiatori, il profitto guida chi ha prodotto e distribuito la serie in questione. In questo caso più di altri è facile argomentare un’affermazione che sa di marxismo e sterile critica sociale.
La struttura emerge, la verità si dis-vela, nell’annuncio di una seconda stagione della serie. Quest’ultima era basata su un libro che, fate attenzione, finisce con la prima stagione. Per cui i valenti opinionisti che sui grandi giornali si interrogano su benefici e pericoli per la società della divulgazione di temi così delicati si tranquillizzino: the show must go on, e andrà avanti perché il metro sul quale viene giudicata la serie non è l’impatto sociale, ma l’audience ed il successo. Non è importante che il suicidio venga idealizzato e romanticizzato, e che quest’aurea ideale possa portare all’emulazione della vittima/protagonista della serie. Come la sociologa ebrea Eva Illouz sottolinea, infatti, la merce viene romanticizzata per essere venduta, e il suicidio non è che un’altra merce tra le tante.
Lungi da adottare una prospettiva manichea, arte/società da un lato e profitto/economia dall’altra, non posso esimermi dal notare la logica dominante di questa vicenda sia sfuggita a tutti coloro che si pretendono commentatori e critici. Non aggiungo altro, non è un articolo pensato per argomentare a lungo. Tra inutili e interminabili cori e di pseudo-intellettuali, infatti, il silenzio di buone, brevi argomentazioni sta diventando assordante.