Oltre lo smog, quei disastri ambientali dimenticati
Erano le sette di sera in un giorno di metà ottobre di quattro anni fa, quando ricevetti una telefonata da Clara. Subito dopo aver alzato la cornetta mi resi conto che quella sarebbe stata una chiamata che difficilmente avrei dimenticato. “Sono andata al supermercato ed ho comprato dei loti”- mi disse. “E allora?- risposi. “Li ho buttati subito”- replicò veloce.
Di primo acchito non riuscii a capire cosa volesse dire con quella frase, ma tutto mi fu più chiaro quando esclamò: “Vengono da Sessa Aurunca”. Sessa Aurunca è una città della provincia di Caserta dove sorse (e sorge) ancora una centrale nucleare (ormai dismessa). A quel tempo stavo già lavorando ad un’inchiesta che avrebbe indagato poi sulla percezione del rischio nucleare degli abitanti del comune casertano. Fu in quel periodo che feci vedere a Clara foto di animali nati malformati a causa del malfunzionamento del reattore. Avevo condiviso con lei documenti ed opinioni. Fu per questo che si impressionò della provenienza di quei loti, che in realtà non avevano nessun tipo di problema (se non quello di essere un frutto che a me nemmeno piace). Si impressionò Clara perché sapeva che si era consumato in quel territorio un disastro ambientale. Un disastro da molti e per molto tempo taciuto o dimenticato.
In un’intervista di qualche anno fa ad un ex dipendente di un’altra centrale nucleare, quella di Borgo Sabotino (LT), questo mi raccontò che durante i trent’anni di lavoro nell’impianto, dal 1975 al 2005, ricevette dai reparti direzionali, ordini illegali e pericolosi per la salute: “Mi si chiedeva di lavare i coffins a mano (contenitori di uranio, n.d.a.) poiché smaltire i residui come da regolamento -cioè facendo lavorare i residui per un riuso degli stessi- sarebbe costato all’ azienda tempo e denaro. Mi sono rifiutato sempre, ma altri miei colleghi –forse per farsi belli con i capi- l’hanno fatto”. Aggiunse poi: “Soprattutto quando facevo il turno di notte e rimanevo isolato, qualcuno veniva a bussarti alle spalle e ti chiedeva di andare a smaltire materiale nelle fogne”. “ Fu dimostrato anche dall‟ARPA: i residui pericolosi venivano buttati là dentro e finivano in mare”.
Ma fu proprio sul finire dell‟intervista che l’ex dipendente di Borgo Sabotino mi rivelò un altro particolare molto interessante: “Per un po’ -disse- durante i miei ultimi anni di lavoro ho prestato servizio anche a Sessa Aurunca, alla centrale del Garigliano. Mi occupavo di risorse umane. Ebbene, durante la mia permanenza in quella centrale, lì a Sessa, cambiò uno dei responsabili di settore, il quale -non so per quale motivo, forse era impazzito (?)- mi commissionò la distruzione dei dati relativi agli ex dipendenti della centrale. Ogni operaio aveva infatti una cartella, una scheda insomma dove erano inseriti che so, documenti, certificati medici, eventuali note su assimilazione di radiazioni superiori alla norma. Ebbene, è andato tutto distrutto. Le ho distrutte io le schede, col tagliacarte”.
A Sessa Aurunca, il cantiere dei lavori fu inaugurato nel 1959 con l’obiettivo di ultimarli entro il 2 dicembre 1962. Termine questo che non fu rispettato perché le frequenti piene del fiume Garigliano costrinsero gli operai a lavorare fino al 1964, anno in cui la centrale entrò in funzione, pur non avendo alcuna licenza di esercizio. Fu solo nel 1967 che ottenne il permesso, perciò durante i suoi primi tre anni di attività la centrale era stata abusiva.
Durante la breve vita del reattore, si registrarono diversi incidenti. Una descrizione dettagliata è stata fatta dall’ormai scomparso avvocato Carlo Marcantonio Tibaldi, voce e leader indiscusso della contestazione antinuclearista di Sessa Aurunca. Nel dicembre 1976 l’acqua del Garigliano, in fase di piena, penetrò nel locale sotterraneo della centrale, dove erano “stoccate” le scorie radioattive e, ritirandosi, si trascinò dietro nel letto del fiume, nella campagna e fino al mare, più di un milione di litri di acqua contaminata dai radionuclidi presenti nel reattore. Incidente analogo avvenne nel novembre 1979 con il Garigliano in piena che invase letteralmente l’impianto. In quell’occasione i dipendenti della centrale per mettersi in salvo furono tratti all’esterno dai mezzi anfibi dei Vigili del Fuoco di Latina, giacché il gommone inviato loro dai Vigili di Caserta, appena messo in acqua colò misteriosamente a picco.
Secondo quanto riportato dal rapporto CNEN del 22/11/1980, l’acqua del Garigliano aveva invaso la centrale portando con sè “essenzialmente Cesio 137”. Ma oltre alle inondazioni, si verificarono incidenti tecnici nell’arco degli anni che vanno dal ’64 all’80. Incidenti che furono negati dal comune di Sessa Aurunca.
Difficile quantificare i danni, vista la mancanza del registro tumori che le istituzioni promettono da anni, ma che –a campagna elettorale finita- non hanno mai realizzato. Da quanto riferito da Tibaldi però, l’incidenza dei tumori sulle persone decedute nell’area della centrale tra il 1972 ed il 1978, sarebbe stata del 44%.
Inoltre tra il 1971 ed il 1980 risulta che nell’ospedale “Dono Svizzero” di Formia (LT), ospedale che serviva una vasta area compresa tra i comuni di Formia, Minturno, Sessa Aurunca, Roccamonfina, Castelforte e SS.Cosma e Damiano, siano nati 15.771 bambini, tra i quali sono stati registrati 90 casi di malformazione genetiche. Malformazioni che hanno colpito anche gli animali: pulcini a tre zampe, agnelli senza muso e maiali con le zanne.
L‘impianto del Garigliano è gestito dalla Sogin, un’azienda che si occupa di smaltire la centrale entro il 2025. Le associazioni ambientaliste si battono per ottenere chiarezza perché la gente continua ad ammalarsi. Continua a morire.
Di casi simili in Italia ce ne sono stati diversi e l’emergenza smog di queste settimane non è altro che la punta di un iceberg molto più profondo, molto più nascosto, fatto di errori umani, negligenze e profitto ottenuto sulla pelle dei cittadini.
Si pensi alla Valle del Sacco. Basta risalire un centinaio di chilometri da Sessa Aurunca per ritrovarsi in provincia di Frosinone. Da lì si estende fino a Roma un un territorio che vide popolarsi di industrie di ogni tipo, da quelle belliche (in un primo tempo) a quelle per la produzione di cemento e prodotti chimici (negli anni più recenti). In mancanza di una regolamentazione legislativa le acque del fiume che scorre nella Valle, il Sacco per l’appunto, ha per anni fagocitato sostanze tossiche e rifiuti pericolosi. Solo negli ultimi tempi ci si sta rendendo conto della catastrofe generata, e malgrado tremila ettari di terreno siano stati posti ad osservazione e a riqualificazione, il processo di smaltimento durerà ancora per decenni.
Ricordo l’intervista ad una signora del posto. Si chiamava Vincenza, viveva a Ceccano (FR). Andai a trovarla perché sapevo che aveva perso quasi tutti i suoi parenti a causa dell’inquinamento. Vincenza lo vedeva scorrere a 500 metri dal portone di casa sua il Sacco e per anni ne ha respirato l’essenza sotto forma di nebbia che la mattina -mi raccontava- “si alza fittissima”.
Vincenza mi parlò di una storia lunga 30 anni. Era il 1980 quando per un tumore alla lingua perdeva il marito. Due anni più tardi sempre per un tumore, alla tiroide stavolta, perdeva la suocera, e nello stesso anno la cognata per un tumore al cervello. “Ricordo che una mattina mio marito mi fece vedere una bolla sotto la lingua, che dal centro si faceva largo a forma di ragnatela. Niente ha potuto salvarlo”. Negli anni ’80 la roba coltivata con l’acqua del fiume veniva mangiata. Si pescavano i pesci e si cucinavano. A volte ci si beveva pure dal fiume Sacco. Nessuno sapeva quanto fosse pericoloso. Nessuno aveva motivo di sospettare niente.
Come nessuno sospettò niente a Seveso (MI) nel 1976, quando nello stabilimento dell’ICMESA, un’avaria causò la dispersione di una massiccia formazione di diossina. La popolazione dei comuni colpiti venne però informata della gravità dell’evento solamente otto giorni dopo la fuoriuscita della nube.
Si avvertì -questo raccontano i testimoni- un odore acre e infiammazioni agli occhi. Per fortuna non vi furono morti, ma circa 240 persone vennero colpite da cloracne, una dermatosi provocata dall’esposizione al cloro e ai suoi derivati, che crea lesioni e problemi alla pelle. Quanto agli effetti sulla salute generale, essi sono ancora oggi oggetto di studi. I vegetali investiti dalla nube morirono a causa dell’alto potere diserbante della diossina, mentre migliaia di animali contaminati dovettero essere abbattuti. Nonostante l’aborto fosse proibito, fu comunque reso legale ai fini terapeutici per le donne del posto che ne fecero richiesta.
L’incidente di Seveso viene ricordato anche per la scandalosa negligenza delle autorità. È chiaro che se si fossero prese misure precauzionali preventive o quantomeno provvedimenti celeri e trasparenti post incidente, molti danni alle persone sarebbero stati evitati.
La storia dei disastri ambientali in Italia è lunga, ed è frutto dell’inesperienza da un lato e di una commistione tra denaro, politica e mafie locali dall’altro. Si pensi alle navi cariche di rifiuti tossici fatte affondare a largo della Somalia o -per rimanere in territorio italiano- a largo delle coste calabresi per mano delle organizzazioni criminali. Oppure si pensi alle rivelazioni fatte da Carmine Schiavone, il pentito dei Casalesi (deceduto quest’anno), che denunciò l’interramento dei rifiuti nel casertano e nel basso Lazio che “nel giro di venti anni ucciderà tutti”.
Uccisi, come i morti del Monferrato dall’amianto, la cui produzione iniziò nel 1906 e continuò per 80 anni. Le vittime furono circa 2000.
Uccisi come a Porto Marghera, dove per decenni le industrie chimiche della zona hanno riversato idrocarburi clorurati e metalli pesanti nella laguna, causando aumenti esponenziali di tumori nella popolazione.
Uccisi dopo lunghe malattie e intossicazioni a Cogoleto, dove la Stoppani, avrebbe riversato 92.000 m3 di fanghi tossici stoccati nella discarica di Pian di Masino, con rilascio di metalli pesanti in quantità elevatissime e concentrazioni di cromo esavalente nelle acque di falda 64.000 volte superiore al limite.
Spesso i colpevoli di questi incidenti non hanno pagato, nemmeno con un giorno di carcere. E fino a quando nemmeno la giustizia della legge (che è poca cosa a confronto con le morti causate) riuscirà a fare il suo dovere, noi continueremo ad assistere al ripetersi della storia e ad ammalarci, o per precauzioni iperboliche, ma giustificabili, proseguiremo a buttare loti dalla dubbia provenienza appena comprati.