XXIII Giornata Nazionale della Colletta alimentare. La gratuità in tempo di crisi

Oggi si è svolta la XVIII edizione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare. Se si cercassero queste parole in rete sarebbe facile rintracciare i numerosi articoli, lettere, testimonianze belle e singolari che danno un’idea di ciò che annualmente accade, in ogni regione d’Italia, ogni ultimo sabato di novembre. Per questo le uniche parole che si possono spendere sono forse quelle che riguardano la «mia» colletta, o che ciascuno potrebbe dire di sé. Si dice sempre che «il tempo consuma ogni cosa»; ieri è stata l’occasione di fare l’esperienza contraria. Ho partecipato alla Colletta Alimentare per il decimo anno consecutivo, e per la prima volta ho visto e preso coscienza di “cose” e dinamiche che, a guardar bene, sono lì ogni anno, eppure capaci di esser nuove. Vado in un supermercato di periferia e vengono con me due amiche, che in questi anni sono diventate grandi aficionadas di questo gesto del Banco Alimentare; diversamente dagli anni passati non ci occupiamo delle scatole (il famoso processo di “divisione e inscatolamento alimenti”), ma di presenziare il banchetto del materiale (volantini, buste) per le prime due ore e di presenziare il “punto carrelli” (due carrelli posti di fronte alle casse per raccogliere rapidamente gli acquisti alimentari che le persone lasciano per la Colletta) per le successive due ore. Un lavoro così diverso dal solito! Tanto diverso che quasi non sembra un lavoro… Un’amica mi dice: «Un’altra mezz’ora e poi andiamo a fare volantinaggio, oppure gli scatoloni. Qui mi sento così inutile!»; di getto e senza pensare le rispondo che noi non siamo inutili anche se ci sentiamo inutili, non lo siamo perché in quel momento, stando lì, siamo una presenza, anche senza dire una parola, anche solo stando davanti al carrello, anche solo per il fatto che abbiamo indosso una (ben buffa!) pettorina gialla. Mi accorgo che il gesto della Colletta è come una catena di montaggio: l’essere capitata, ieri, nell’anello apparentemente «morto» della catena (star ferma accanto a un carrello) è se qualcosa», ci ha fatto guardare un po’ meglio il motivo vero per cui eravamo lì: non seguire la nostra entusiastica idea di efficacia e utilità, ma servire ciò che c’era, esserci, «semplicemente» scegliere di essere lì.
Accorgermi di questo è stato il modo per accorgermi di tutto il resto. Quando si è in tanti a fare la stessa cosa è facile dire (o pensare) il retorico «tutti sono utili, nessuno indispensabile»; ieri guardavo ciò che accadeva, tutti i volontari (dalla signora over settanta che è lì da molte ore e “chiede” di allontanarsi per andare a prendere qualcosa da bere – specificando che avrebbe fatto presto! –, ai moltissimi ragazzi liceali che si aggiravano per il supermercato consegnando volantini, con delle facce così contente!) e vedevo proprio l’opposto: tutti quelli che hanno partecipato, ogni volontario, ogni Direttore dei supermercati d’Italia aderenti, ogni responsabile del Banco Alimentare che si è preso cura di un punto vendita, ogni persona che ha acquistato un solo prodotto per la Colletta è stata indispensabile, perché il il gesto della Colletta non consiste in una somma o in una sottrazione di cose e persone, ma è fatto di una “strana” unità. Si potrebbero citare migliaia di esempi. Ne faccio solo due (che dalla privilegiata postazione piantone-carrello ho potuto cogliere “live”); una giovanissima ragazza esce dalla cassa, ha in mano due tavolette di cioccolato Novi. Si avvicina al carrello e chiede: «Ma si “può” donare anche la cioccolata?». Mentre si allontana mi sorprendo a vedere cosa sia la vera carità: non un’intenzione né un progetto (quante volte, presi dalla certezza di star facendo una cosa «buona o giusta», ne diamo per scontato il dato di fatto più vero [ad esempio che ciò che offriamo può non servire]?), ma una reale e umile domanda di partecipazione. Il secondo esempio è uno di quelli «eclatanti», uno di quelli che ti ricordano perché vale la pena (al medesimo livello della ragazza del cioccolato, o di un signore magrebino che silenziosamente si avvicina al carrello e senza dire niente lascia un pacco di cereali): un ragazzo al momento del pagamento in cassa mi chiama dicendo: «Mi serve qualche busta, perché devo darvi queste cose ma con una busta sola non riesco». Avvicinandomi alla cassa noto che c’è una lunga lunga fila di prodotti che continuano a scendere dal nastro scorrevole, e naturalmente immagino che mi dica lui quali cose poter prendere e quali appartengono invece alla sua spesa. Inizio a imbustare ciò che c’è, con una breve battuta gli dico: «Grazie! È una spesa sostanziosa…»; lui risponde: «Bè, una tantum… Conosco il Banco Alimentare da quindici anni». Non c’è il tempo di dire altro, perché la concitazione del “pagamento-in-cassa” (in cui un piccolo ritardo può provocare la guerra civile) non lo permette. Mentre porto la prima busta nel carrello la mia amica si avvia a prendere il resto delle cose, e osservo la scena dai tre metri di distanza. Il ragazzo dice: «Puoi prender tutto, è tutto per voi». Tra lo stupore della cassiera, di quelli dietro in fila e il nostro, portiamo nel carrello 86€ di spesa. Ma sempre perché la Colletta non è una pura somma o un problema di quantità (e tanto meno solo di soldi) ci stupiamo soprattutto per tre motivi: questo ragazzo ha fatto una «vera» spesa (prodotti scelti, pensati, variegati, non accumulati a casaccio) ed è venuto proprio per questo (non ha acquistato altro per sé). Sarebbe stato bello chiedergli perché l’ha fatto, ma forse nessuna eventuale spiegazione sarebbe stata capace di lasciarci il desiderio di imparare, anche noi, quella totale gratuità, dimostrata innanzitutto dal non aver aggiunto niente (neanche una parola) a ciò che già aveva fatto, o nel salutarci con una faccia che non conosceva il minimo compiacimento o autoaffermazione. Quando con gli altri amici e volontari, durante la Colletta, ci scambiamo i reciproci racconti, capita spesso di usare o sentire la parola «noi» («Quest’anno ci stanno lasciando tanti prodotti per l’infanzia!», oppure «Ma sono tutte per noi queste cose?»); ieri mi sono realmente chiesta cosa ci fosse dentro questo «noi» (noi che concretamente siamo lì a dare tempo ed energie, perché siamo soddisfatti di vedere che gli scatoloni si riempiono di cose donate? Noi che alle 19:00 siamo un po’ affamati e stanchi, perché siamo contenti quando arrivano pacchi di biscotti e merendine che non sono per noi, eppure sembra che ci riguardino molto di più che se le potessimo mangiare?). Cosa permette di dire questo noi, quando anche nei rapporti più stretti sembra diventato difficile? Mi torna in mente la bellissima canzone di Giorgio Gaber, che non a caso si chiama «Canzone dell’appartenenza»: «Sarei certo di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire “noi”».
Ma visto che ultimamente sembra essere più di moda e concreto ripetere che «c’è la crisi», concludo con due dati rapidamente rintracciabili in internet (sul sito del Banco Alimentare, o tramite ricerche incrociate): quest’anno sono state raccolte 9.037 tonnellate di prodotti alimentari, in diminuzione rispetto allo scorso anno (9.622). Ma nel 2009 il totale era stato di 8.600, e nel 2004 di 6.945. In quello stesso anno i supermercati che aderivano all’iniziativa erano 5.283, i volontari 100.000. Quest’anno i supermercati sono stati 13.000 (più del doppio), i volontari 135.000. Che trentacinquemila persone in più abbiano scelto – liberamente! – di passare il proprio sabato alla Colletta Alimentare, di donare il proprio tempo, mi pare un dato da osservare attentamente, in questo «tempo di crisi».