Overtourism: quando il turismo smette di essere portatore di benessere

E’ noto come il turismo sia un’importante fonte di ricchezza per molti Paesi, come lo è senz’altro per Roma, nostra storica metropoli che trasuda magnificenza e tradizione in ogni angolo. Trattando per l’appunto di turismo, ci soffermeremo in quest’articolo sul cosiddetto “flusso turistico”, molto spesso considerato come la panacea economica di un territorio, esteso o meno che sia, proprio perché nel pratico, ogni turista è, economicamente parlando, un potenziale fruitore che nel territorio spende per vitto, alloggio, servizi o beni di lusso più o meno prioritari (ad es. i souvenirs).
La nozione di “turismo” invece, intesa come soluzione di business con effetti solitamente positivi, è un concetto largamente condivisibile, ma che, come quando si parla del Pil, non può essere separato da un quesito alquanto fondamentale quanto spontaneo: qual è il suo prezzo?
Robert Kennedy, nel 1968, riferendosi al Pil di una Nazione, lo considerava un indicatore incompleto poiché “Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana (…)”. Per alcuni aspetti quindi, anche il turismo è un fenomeno economico con alcuni lati potenzialmente negativi.
Per comprendere meglio quali possono essere i fattori negativi del turismo, conviene iniziare dall’assunto che una località non è un luogo dallo spazio infinito; una città, una località marina o montana, ha un confine ben definito, ha servizi logistici e ricettivi con una capacità limitata. Certamente, almeno per i servizi, è tendenzialmente possibile ampliarne la capacità, ma non con i tempi richiesti dai flussi turistici. In primis, quando si parla di Turismo, il concetto per cui esso “porta benessere” è veritiero fino ad un livello (non definito) massimo di tolleranza, cioè fino a che il turismo non genera un impatto negativo sul territorio stesso. Il World Tourism Organizzation ha definito l’overtourism come “il numero massimo di persone che possono visitare una destinazione turistica allo stesso tempo, senza causare distruzione del patrimonio fisico, economico e socioculturale ambiente e un inaccettabile calo della qualità della soddisfazione dei visitatori”. Le cause di questo fenomeno possono essere molteplici. Ad esempio, la mancata conoscenza di tutta l’offerta turistica di una data località. Se pensiamo ad una città come Roma per l’appunto, i turisti conoscono e visitano grandi e rinomati monumenti dell’antichità muovendosi principalmente all’interno di un percorso predefinito e circoscritto al centro storico. Eppure, la città offre tanti altri punti d’attrazione meritevoli di attenzione che, spesso, sono invece deserti, pur non trovandosi lontani dai principali siti. Ecco quindi che, se i flussi turistici si spingono solamente in alcune parti cittadine, saranno queste le infrastrutture ed i residenti di queste zone ad essere sottoposti ad uno stress molto elevato che, con il tempo, potrebbe portare a rompere quel rapporto città – turismo che dovrebbe invece rimanere equilibrato in una città turistica come la nostra.
Un secondo punto di riflessione è senz’altro la stagionalità e la disponibilità di giorni di ferie dei lavoratori che, almeno nel nostro Paese, è possibile e concentrata principalmente nel mese di agosto. Relativamente ai turisti italiani, pertanto, un sovraffollamento dei luoghi di villeggiatura è assai scontato. La stagionalità, inoltre, comporta che nel principale mese (ad esempio agosto) in cui la maggior parte della popolazione va in vacanza, le strutture ricettive raggiungono la piena capacità, rimanendo vuote o parzialmente inattive nei restanti mesi dell’anno. Questa difformità di capacità comporta, per la popolazione locale che vive di turismo, uno stress elevato durante i mesi di alta stagione, ma anche un andamento stagionale spiccato soprattutto per i contratti di lavoro. Rispetto al passato però, grazie anche all’avvento dello smart working e ad un diverso modo di organizzare le attività lavorative, i flussi turistici si stanno lentamente distribuendo anche negli altri mesi.
Un terzo evento diventato di attualità negli ultimi tempi inoltre è la possibilità, grazie anche alle piattaforme digitali, di accedere ad affitti brevi soprattutto nelle città d’arte. Questo comporta un cambiamento nel rapporto residenti – turisti: aumentando infatti gli alloggi turistici e con loro altrettanto i prezzi, i residenti tendono a spostarsi verso la periferia, svuotando il centro e privandolo della vita “quotidiana”. Si spostano le persone, ma anche difatti la loro capacità di acquisto. Il centro, infatti, si svuota così lentamente degli esercizi commerciali tipici delle zone residenziali che vengono sostituiti da fast food, negozi di souvenir e, spesso, da negozi che offrono ciò che il turista cerca nel suo immaginario in quel luogo specifico. Si perde così la naturalezza della località, la sua “verace” tradizione, il cui centro storico assomiglia sempre più lentamente ad un enorme parco a tema. Si spiega così il dibattito delle ultime settimane sul vietare o quantomeno limitare gli affitti brevi nelle grandi città al fine di tutelare il tessuto sociale tipico del luogo (si veda anche il fenomeno “AirBnb”).
Quella del World Tourism Organizzation è una definizione di massima che teorizza il problema, ma non sembra dare dei metodi di calcolo per valutarne l’impatto. Una definizione che sembra basarsi però sul concetto di capacità: il numero massimo di persone che un determinato mezzo può trasportare; il numero massimo di clienti che possono essere ospitati nelle strutture ricettive della zona, il numero massimo di persone che fisicamente possono “vivere” in un determinato luogo senza creare situazioni critiche alla logistica di approvvigionamento; il numero massimo di turisti che un determinato ambiente (naturale o sociale) può ospitare senza rovinarlo o che si vengano a creare dei problemi sociali. La definizione di overtourism dataci dall’ente internazionale, pertanto, punta a individuare un limite oltre il quale il turismo, da effetto benefico per le località interessate, smette di produrre benessere economico e sociale, ed inizia a consumare risorse. Quale è questo limite? Non esiste un valore univoco perché ogni località turistica è diversa dalle altre. Si possono però trovare dei metodi di calcolo che, inseriti i valori caratteristici del luogo, permettano di dare dei risultati di riferimento: il Tourism Penetration Rate che tiene conto del numero di turisti presenti nella località ogni 100 abitanti del luogo; il Tourism Density Rate che si basa invece sul rapporto tra numero di turisti rispetto all’area fisica della località.
Per fronteggiare questo fenomeno, le Istituzioni e gli attori turistici dovrebbero concentrarsi sulla logistica: migliorare ed aumentare le modalità di trasporto, che permetterebbe di allentare lo stress sulle infrastrutture esistenti (ove, per tempistiche o motivazioni economiche, non sia possibile costruirne di ulteriori) e di conseguenze anche l’impatto sui fruitori di tali infrastrutture. Dovrebbero concentrarsi sulla sponsorizzazione di tutta l’offerta turistica affinché il turista non rimanga sempre sugli stessi percorsi, ma si distribuisca bensì su tutta l’area cittadina, rendendo meno impattante la sua presenza e, di pari passi, abbia ulteriori motivi per tornare a visitare il luogo (il caso del turista di ritorno).
Concludendo, i soggetti chiamati a gestire i flussi turistici dovrebbero imparare a considerare e gestire bene il l’overtourism, in quanto quest’ultimo è un fenomeno che impatta negativamente i luoghi colpiti comportando un peggioramento della qualità dell’aria, il sovraffollamento dei mezzi pubblici, l’aumento del rumore e, per i turisti, la possibilità di vivere pienamente dei luoghi scelti per le vacanze. Gestire e fronteggiare l’overtourism significa, oltre che tutelare l’ambiente e il luogo, garantirsi un futuro turistico perché il turista contento, è un turista che ritornerà volentieri.