Cannabis legale: dal referendum alla proposta di legge

Una tabella sbagliata. È questa una delle cause del fallimento del referendum a favore della cannabis legale e che ha portato il presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, a dichiarare inammissibile il quesito referendario. Nella conferenza successiva, Amato avrebbe spiegato che il quesito non riguardava solo la cannabis ma tutte le sostanze stupefacenti, compresi papavero e oppio delle tabelle 1 e 3 mentre la pianta in questione si trova nella 2. Una decisione che ha suscitato non poche proteste. Tra chi si è espresso contro la Corte, uno dei principali promotori del quesito, il Presidente di Più Europa Riccardo Magi:
«La Corte Costituzionale ha fatto quello che il presidente Amato ha detto pochi giorni fa che non andava fatto, cioè cercare il pelo nell’uovo…”
Lo stesso Magi è tra i proponenti di una legge in Parlamento a favore della legalizzazione, al momento in sospeso in Commissione Giustizia.

Il referendum e la Legge del 1990
Il quesito referendario aveva raggiunto l’obiettivo delle 500mila firme. (Referendum Cannabis. Il raggiungimento delle firme riaccende il dibattito – 2duerighe). Ma in cosa consisteva?

Centrale nel quesito non è la proposta di una legge ma la modifica ad una già esistente: il Testo Unico delle leggi riguardanti stupefacenti e sostanze psicotrope, approvata il 9 ottobre del 1990. Il Decreto del Presidente della Repubblica n.309 è alla base di tutto ciò che riguarda la coltivazione, la produzione, lo spaccio, la detenzione e la tossicodipendenza riguardante tutte quelle sostanze dichiarate illegali e che si trovano suddivise in quattro tabelle. Il DPR è stato modificato con la Legge 79 del 2014 in materia di sanzioni, dividendo le tabelle in base alle pene minori (tabella 2 e 4) e maggiori (tabella 1 e 3).
Il referendum si proponeva di apportare alcune modifiche all’Art.73 e all’Art.75 del DPR del 1990.
Nel primo quesito si elimina al comma 1 dell’art. 73 del DPR la parola “coltiva” rendendo di fatto la coltivazione di tutte le piante legale ma mantenendo illegale fabbricazione, detenzione e produzione. Al comma 4 dell’art.73, invece, si elimina la reclusione da due a sei anni.
«Abbiamo più del 35% di detenuti che sono incarcerati per violazione dell’articolo 73 e il 25% di tossicodipendenti in carcere; abbiamo ogni anno 30/40.000 persone giovani segnalate alle prefetture per semplice consumo, che non è reato penale ma subisce sanzioni amministrative»
(Franco Corleone, Presidente del Comitato Scientifico della Società della Ragione)
Per quanto riguarda l’Art. 75 invece, si elimina la sospensione della patente.
«il ritiro della patente ha costruito un business ignobile per cui chi, pur non guidando un mezzo, viene fermato in una piazza con uno spinello, subisce il ritiro della patente e non la riavrà più nella sua vita in maniera continuativa, ma sarà sempre sottoposto mensilmente agli esami (del capello, dell’urina e non si sa di che altro) pagando centinaia di euro ogni volta»
(Franco Corleone)
La bocciatura del quesito: pro e contro
Al centro della bocciatura ci sarebbe la questione della coltivazione: le modifiche la renderebbero legale per tutte le tipologie di piante elencate tra le stupefacenti, con il rischio quindi di depenalizzare la coltivazione anche per le droghe pesanti:
«il quesito referendario non era sulla cannabis ma sulle droghe pesanti, insistendo su quei commi dell’articolo 73 del testo unico degli stupefacenti che non contenevano la cannabis, ma si riferivano a sostanze che includono papavero e coca violando gli obblighi internazionali»
(Giuliano Amato, conferenza stampa del 17 febbraio)

Secondo i promotori del quesito, consentire la coltivazione anche delle altre piante era l’unico modo per depenalizzare completamente la cannabis. Siccome le altre droghe oltre alla coltivazione richiedono anche una lavorazione che di fatto rimane vietata (nel comma 1 dell’Art. 73), non ci sarebbe stata nessuna liberalizzazione di droghe pesanti (ad esempio per quanto riguarda le foglie di coca, la cocaina si ricava solo in seguito ad un lungo processo di lavorazione). Il problema però persiste: una volta che diventa lecito coltivare queste piante vi è la possibilità di spostare la produzione all’estero creando dei buchi nel sistema di prevenzione.
Ma il Comitato Promotore si è difeso anche su questo, dichiarando che la coltivazione legale faceva riferimento solo a quella rudimentale a uso personale e non quella destinata “al commercio all’ingrosso”, che invece viene specificata negli articoli 26, 27 e 28 del DPR e che nel quesito infatti non vengono modificati.
Il Teso Base in Commissione Giustizia
La palla passa ora al Parlamento, dove la Commissione IIa Giustizia della Camera l’8 settembre ha adottato un testo base che va a modificare la Legge n. 309 del 1990 “in materia di coltivazione, cessione e consumo della cannabis e dei suoi derivati. Si era partiti con l’esame di tre proposte di legge a prima firma dei deputati Riccardo Molinari (Lega), Riccardo Magi (+Europa) e Caterina Licatini (M5S), arrivando poi al disabbinamento della proposta leghista, più repressiva rispetto alle altre.
Il testo unificato renderebbe legale la coltivazione e la detenzione per uso personale “di non oltre quattro femmine di cannabis, idonee e finalizzate alla produzione di sostanza stupefacente e del prodotto da esse ottenuto” (modifiche all’Art.73). Viene prevista una pena meno severa, con reclusione da 3 a 12 anni e una multa da 20mila a 250mila euro per le attività illecite legate alla cannabis. Mentre per gli illeciti riguardanti la tabella 1 (papaveri da oppio) viene stabilita una reclusione da 8 a 20 anni con una multa da 30mila a 300mila euro. All’Art 75 infine vengono soppresse le sanzioni amministrative delle tabelle 2 e 4.
Una proposta dunque che potrebbe portare le iniziative del quesito referendario direttamente in Parlamento e che andrebbe a sanare quella contraddittorietà del sistema nazionale che di fatto consente il consumo di cannabis ma non la coltivazione ad uso personale. Un sistema questo che porterebbe il vasto numero di consumatori presenti sul territorio a rivolgersi inevitabilmente al mercato illegale, sotto il controllo delle mafie.

E se il commercio fosse legale?
Secondo lo studio del professore Marco Rossi del dipartimento di scienze sociali ed economiche alla Sapienza, il commercio legale della cannabis porterebbe in Italia circa 35mila nuovi posti di lavoro e fino a 7 miliardi di euro nelle casse dello stato. Un giro d’affari che al momento è in mano ad associazioni criminali e mafiose: stiamo parlando del 40% degli incassi della criminalità (fonte: relazione sulle tossicodipendenze del 2020).
Il referendum poteva essere “un trampolino di lancio” per la legalizzazione di una droga classificata come leggera a livello internazionale. Una pianta che in paesi come l’Olanda o gli Stati Uniti (solo in alcuni stati) è stata dichiarata come legale anche a livello commerciale e non solo per l’uso privato. La legalizzazione della coltivazione poteva essere un primo passo per l’Italia che comunque rimaneva distante da questi paesi. Con la situazione attuale la distanza è più che raddoppiata.
