Quale confine tra nudo artistico e sessualizzazione dei corpi?
Dagli anni 80 fino alla fine dei 90, in Italia, ci ritroviamo nell’epoca d’oro della televisione privata, dove a fare la sua entrata è la tv “berlusconiana”. In questo nuovo sistema televisivo, il corpo femminile è quello di un nuovo tipo di subrette, già apparsa nei primi programmi Rai degli anni 60. In questo periodo, giovani donne diventano le nuove protagoniste della tv, sia quella della Mediaset che quella della Rai.
Le generazioni, nate e cresciute in questi momenti storici, si abituando a un’idea della donna che si divide in due linee parallele: da una parte c’è la figura materna rilegata tra le mura di casa, che deve essere casta e pura. Quella invece provocante, che “osa” mostrare parti di sé, è unicamente la giovane che rispetta determinati canoni estetici e che diviene oggetto di uno sguardo esterno, dove è privata di una qualche complessità caratteriale che la definiscono in quanto essere umano. Il solo scopo è quindi quello di compiacere l’altro.
Negli ultimi anni, movimenti artistici e di protesta si sono indirizzati verso un cambiamento di prospettiva distaccandosi dalla sessualizzazione. Sebbene sia notevole l’impegno dimostrato da queste persone, la problematica è ancora fortemente presente nel nuovo millennio.
Dalla spigolatrice di Sapri al Cheap Festival
In questo panorama si colloca uno degli ultimi avvenimenti, ovvero l’inaugurazione della statua della Spigolatrice di Sapri, realizzata dall’artista Emanuele Stifano. L’opera, che raffigura la protagonista della poesia di Luigi Mercantini, narrante la fallita spedizione di Carlo Pisacane contro i Borboni, è stata fortemente criticata da alcuni personaggi noti e difesa da altri tra cui ovviamente vi è l’artista. Il problema di questa statua non sembra tanto essere la nudità ma il lato b messo troppo in evidenza, che distoglie totalmente lo sguardo dall’aspetto generale della figura risorgimentale. Secondo le accuse infatti, la giovane sembrerebbe più vicina ai canoni estetici di una ballerina della tv più che ad una contadina, come quelle raffigurate da altri artisti come Millet.
Tra le difese invece, c’è chi la paragona ai numerosi nudi artistici elogiati negli anni, come ad esempio quelli del Bernini o l’imponente statua del David di Michelangelo oppure le statue dell’arte classica. A queste correnti artistiche però, appartenevano anche statue dove tuniche, corazze e divise, stavano a coprire il soggetto che molto spesso ritraeva personaggi importanti.
E’ bene quindi fare una distinzione: ad esempio nel nudo delle statue greche o romane, prettamente maschile e associato alla figura degli eroi, si elogiava la raffigurazione di una perfezione ideale a cui si aspirava. Si metteva quindi in secondo piano lo scopo erotico per dar spazio a quello eroico.
Nel mondo contemporaneo però, non è la prima volta che una statua viene criticata per la sua nudità. A New York, ce n’è una raffigurante la figura mitologica della Medusa con in mano la testa mozzata di Perseo. Nella visione dell’artista Luciano Garbati, il mito si ribalta rappresentando la donna, completamente nuda e in posa eroica (al pari di quelle del periodo classico) davanti alla corte suprema che ha condannato il produttore Harvey Weinstein. L’opera, sebbene sia un nudo, rappresenta una rivincita femminile e un elogio del movimento #metoo (nato in seguito al caso Weinstein). Ma anche qui, non sono mancate le critiche che hanno definito la nudità fuori contesto, con una rappresentazione del movimento femminista nell’ottica di un uomo. Questi due casi (quello di Sapri e di New York) sono stati paragonati in difesa dell’opera di Stifano. Altri invece le hanno totalmente differenziate: sebbene la statua nella Grande Mela mostri un nudo totale, viene associata più ad una nudità artistica che elogia le donne rispetto a quella di Sapri, dove nonostante ad essere in evidenza è solo un sedere coperto tra l’altro da un tessuto, l’elemento si presenta fuori contesto, distogliendo lo sguardo dall’insieme.
Le due statue però rappresentano solo una parte di tutta la questione che gira intorno al corpo femminile. Molti difensori dell’opera infatti hanno accusato di incoerenza quegli stessi che parlano di libertà dei corpi e che poi si ritrovano ad accusare un lato b troppo in evidenza. A prendere le difese di questa parte ci ha pensato tra i tanti, anche il Cheap Festival, un movimento artistico che opera a Bologna, usando gli spazi destinati a quella stessa cartellonistica pubblicitaria (a volte sessista) che ogni anno invade le varie città. Il movimento da anni segue un percorso di sensibilizzazione su temi considerati ancora tabù come la libera sessualità, la censura dei capezzoli femminili sui social rispetto a quelli maschili, la libera scelta ad abortire o la lotta al body shaming. Nell’ultimo progetto, realizzato in collaborazione con la fotografa ventunenne Rebecca Momoli, la città di Bologna è stata invasa da cartelloni raffiguranti corpi di donne (censurati solo da alcuni pixel) con messaggi, tra cui “my body my choice” (il mio corpo la mia scelta) e il titolo della mostra: “Her name is revolution” (Il suo nome è rivoluzione).
HER name is revolution: il nuovo progetto di arte pubblica di CHEAP con Rebecca Momoli è in strada a Bologna – CHEAP (cheapfestival.it)
In un post pubblicato per promuovere l’evento, il Festival ci tiene a dire la sua anche riguardo a chi paragona i nudi delle sue mostre a quello della statua di Sapri:
«diamo voce a narrazioni contro egemoniche, controcircuitando i paradigmi della rappresentazione visiva e culturale, turbando il canone legato ai corpi…quel nudo (Spigolatrice) che erotizza il corpo femminile a partire dal male gaze è evidentemente in contrasto con il nudo del poster di Her name is Revolution, un nudo che impone un corpo politico»
E ancora, tra chi difende la libertà dei corpi, risaltano anche le dichiarazioni della book blogger Carolina Capria:
«…il problema non è la nudità (che è bella), magari potessimo fare quello che vogliamo del nostro corpo senza essere eroticizzate. Il problema è invece l’oggettificazione sessuale dove le donne diventano più simili ad oggetti, sotto uno sguardo terzo: cioè prima di ogni altra cosa devono essere piacevoli per lo sguardo estraneo, tutto ciò che caratterizza quella donna viene messo da parte per mettere in risalto solo l’appetibilità sessuale…»
Il caso di Marco Montemagno: “mostrando culetto e pere dimostrate la vostra inferiorità”
«vedo pere e culetti su Tik Tok, quello non è un modo di esprimere la vostra libertà ma un modo di dimostrare una grande inferiorità, perché non è in grado di fare nient’altro se non quello…e quando crepi? Verrai ricordata solo per quello.»
Queste le dichiarazioni rilasciate in un video (eliminato poco dopo) dall’influencer, imprenditore ed esperto di marketing Marco Montemagno. Lo stesso a distanza di qualche giorno si è scusato su quanto accaduto, ammettendo di aver solo offeso le donne in quella che invece voleva essere una “critica costruttiva”.
L’idea, almeno iniziale, di Montemagno può essere vista come il frutto di quella stessa società che dagli anni 60 con il mito della donna “angelo del focolare” agli anni 80-90, in cui la giovane attraente si spoglia solo per compiacere l’uomo, ha formato intere generazioni.
Marco Montemagno “Donne in mostra su social inferiori”/ Poi scuse “Video vergognoso” (ilsussidiario.net)
Lo stesso si giustifica dicendo di essere stato estraneo a temi quali l’emancipazione femminile per tutta la sua vita, citando anche gli anni della sua crescita fino all’adolescenza, in cui il sistema patriarcale era fortemente radicato nell’educazione, più di quanto lo è ora. Complice delle sue dichiarazioni sembra essere quindi un’educazione che lo ha tenuto estraneo al mostrare una certa sensibilità verso determinati problemi.
Tra chi lo ha criticato spiccano infatti anche commenti quali:
«se siamo mezze nude per far crescere l’attenzione su un cartellone pubblicitario (tipo quelle in cui c’è un esplicito riferimento erotico verso il corpo femminile, ad esempio il primo piano di un sedere per pubblicizzare un liquore) andiamo bene, ma se ci spogliamo perché lo vogliamo noi no»
(dalle storie Instagram di lumore.ps)
Infatti le critiche mosse nei confronti di Montemagno si muovono più o meno tutte sull’idea che il corpo femminile deve essere staccato dalla rappresentazione che è stata trasmessa fino ad oggi: mostrare il proprio corpo NON deve per forza equivalere al compiacere chi lo guarda ma anzi, può essere uno strumento di discussione su alcuni temi considerati ancora tabù come il promuovere canoni di bellezza diversi da quelli usuali, fronteggiare la pratica estrema della censura che va dai social al cinema, sensibilizzare sul cancro al seno oppure sulla libera scelta di depilarsi.
Da dove partire per porre fine alla sessualizzazione e promuovere la libertà del proprio corpo:
E’ quindi opportuno ripartire dalle basi su cui si regge da anni la nostra società. Delle ideologie che automaticamente ci fanno esprimere un giudizio errato su determinati temi, escludendo una riflessione più approfondita. Senza l’immedesimazione in queste situazioni, infatti, si incorre solo in un giudizio sbagliato su ciò che è arte e ciò che non lo è. La sessualizzazione e la libertà del corpo sono due fronti opposti che troppo spesso si ritrovano ad intersecarsi all’interno di dibattiti. Una buona educazione che deve comprendere ambo i sessi (e chi giustamente si sente di appartenere ad entrambi) può solo portare giovamento al nostro sistema sociale, ancora troppo basato su concetti datati e pericolosi, soprattutto per i giovani.