Nasce “AI OPEN MIND”, nuovo hub di confronto sulle intelligenze artificiali
Parte da Cyrano de Bergerac stavolta la visionaria sociologa Elena Battaglini, già intervistata dal nostro giornale sui cambiamenti intervenuti nella fruizione degli spazi dopo il diffondersi della pandemia, per cercare di rendere cosa serva oggi per riflettere sulla parola “Intelligenza”, umana ed artificiale, che è poi uno degli obiettivi del neonato hub Ai open mind. Nella Storia comica degli Stati e Imperi della Luna (1657), un abitante lunare tenta di spiegare al viaggiatore, protagonista del romanzo, ciò che intende per intelligenza. E dice: “Nell’Universo vi sono forse un milione di cose che per essere conosciute, richiederebbero in voi un milione di organi diversi fra loro… se io volessi spiegarvi ciò che percepisco con i sensi che vi mancano, voi ve lo rappresentereste con qualcosa che può essere udito, toccato, odorato o assaporato, e tuttavia non è nulla di tutto ciò”.
Ecco, questo scritto di così tanti anni fa rappresenterebbe ancora bene, per la sociologa, quello che è il momento attuale nella storia del pensiero; un passaggio epocale, un cambiamento che è epistemico ed ontologico. Molti dei più recenti studi di neuroscienze asseriscono che la nostra mente pensa attraverso mappe, story-arcs, circuiti sentimentali, relazioni con l’ambiente e quindi che il mondo, da questo punto di vista, non possa che essere pensato “per congruità o per differenze”. La capacità di connessioni, in altre parole, non si esaurirebbe all’interno del nostro cervello, e nemmeno del nostro corpo: la nostra capacità di pensare va piuttosto considerata all’interno di una più vasta rete di relazioni tra umani e non umani, all’interno dei diversi paesaggi in cui noi entriamo in relazione. Dalle evidenze degli studi della neurologia della percezione è noto, da tempo, che il cervello umano sia un apparato inesorabilmente connettivo, il sistema ipersociale per eccellenza e che, in quanto tale, si occupa prevalentemente di relazioni. Al cervello non interessano gli assoluti: è per questa ragione che il significato di un ‘oggetto’ (il patrimonio paesistico-territoriale, ad esempio) non possa essere decontestualizzato e analizzato in un vacuum.
Da questi studi deriva anche che le osservazioni scientifiche non possano separare gli eventi psichici da quelli fisici, ma siano destinati ad osservare per ‘campi’. Secoli di pensiero scientifico lineare, schiacciato esclusivamente sul principio di non-contraddizione e di causa-effetto, ha illuso legioni di ricercatori sulle possibilità della scienza di studiare un fenomeno schiacciandolo su immagini ‘chiare e distinte’ di cartesiana memoria. In realtà è solo dalla relazioni tra cose che apprendiamo: le informazioni, i dati conoscitivi derivano infatti da ‘differenze o incongruenze’ (si veda l’articolo: Battaglini E., Territorio e metaterritorio come spazio di relazioni. In Mela A., Battaglini E., I concetti-chiave e le innovazioni teoriche della sociologia dell’ambiente e del territorio del dopo Covid-19, numero monografico Sociologia Urbana e Rurale, n.1 – 2022, in fase di pubblicazione).
.Da tutto questo si evince anche quale sia la principale sfida per gli studiosi di soft come di hard sciences, oggi, ivi incluse le discipline che si occupano della pervasiva AI: sfidare con pensiero critico i dispositivi che costringono anche le menti degli studiosi ad osservare solo una cosa alla volta. Si tratterebbe quindi di attingere i dati osservati dalle scienze dalle ‘relazioni’ tentando di cogliere ciò che ‘accade insieme nello stesso tempo’ e, all’interno del contesto del fenomeno osservato, cogliere le trame di senso e direzione in cui contestualizzare l’oggetto o gli oggetti della sua ricerca.
Cos’è ‘smart’, dunque, cosa significa essere intelligente? Sapere che l’intelligenza è potente quando è strategica. Intelligenza deriva infatti etimologicamente da intelligere: ‘inter- e lègere’ (scegliere), e descrive l’atto del ‘trascegliere’, dello scegliere con attenzione – e cura – le relazioni, anche all’interno delle comunità scientifiche.
Smart City o Smart Lands? Quali politiche pubbliche?
Ancorandosi a quello che è il suo più diretto terreno di studio come sociologa dell’ambiente e del territorio, Elena Battaglini si è domandata cosa sia una Smart Land e come distinguerla dalla narrativa mainstream sulle Smart Cities. Citando Luciano Floridi (2020): «L’Intelligenza Artificiale (IA) è un ossìmoro: tutto ciò che è veramente intelligente non è mai artificiale e tutto ciò che è artificiale non è mai intelligente», la studiosa osserva che l’Intelligenza Artificiale non sostituirà mai il dovere umano, la capacità umana e civile, sempre più cogente, di avere pensiero critico, di fornire cornici di senso, capitale semantico (Floridi 2018), ossia ciò che dà direzione e senso a tutte le nostre azioni, tanto più come stakeholders o shareholders di processi d’impresa o di sviluppo territoriale.
In tema di conoscenza e di intelligenza, le politiche urbane sono ancora schiacciate sulle narrazioni del Novecento, sui settori, sulle cose. Non si è ancora compreso, cioè, l’avvenuto passaggio da un’economia fondata sulla produzione a una economia della conoscenza. Che ne siamo consapevoli o meno la nostra economia si fonda principalmente sulla conoscenza e quindi non si tratta di regolare o normare su ‘cose’, ‘oggetti’, ‘persone’, comunità, città ma – in termini di ‘intelligenza collettiva’ – intervenire strategicamente su spazi di relazioni.
C’è quindi bisogno di orientamento, direzione, cornici di senso, architetture di idee, capitale semantico, invece la politica ancora insiste a regimentare cose sperando che la direzione di esse, magicamente, cambi. Non è una strategia regolare cosa si “fa” ma è strategico, invece, indirizzare lo sviluppo di cosa si produce.
Tutto questo ci porta a considerare una città, un territorio come eco-sistema di relazioni. E ci sfida, anche come studiosi, ad interrogarci quindi su quale intelligenza e quali metabilità (e non semplici skills, competenze) servano, oggi, per progettare in maniera condivisa e partecipativa una nuova idea di abitare. L’abitare è etimologicamente attiguo al termine di habitat da intendersi come habitus, habito, uno stato del processo dello stare al mondo, di viverlo, di percorrerlo. Habitare è anche affine al verbo habere: una presa di possesso e, dunque, di territorializzazione di spazi. Spazi di esperienze, di corpi, di tempi e spazi interni, di in-vironments in relazione con en-vironments: un territorio, una città danno continuità e spazio specifico alla nostra vicenda umana.
Domande più che risposte
Da questo come dagli altri contributi dei relatori intervenuti al Live Meeting Opening di AI open mind – la cui diretta per chi volesse approfondire, sono scaturite più domande che risposte, naturalmente. Come è nelle cose quando si affronta un’era di passaggio come la nostra. Ne riportiamo alcune, sulle quali il dibattito resta ancora aperto. Qual è il progetto umano che si sta mettendo in campo oggi? Cosa intendiamo per Smart city: una città partecipata o, piuttosto, il governo ‘automatico’ del sociale, i cui vantaggi, materiali e immateriali, sono a beneficio di pochi lucky few come i Big 5 dell’High Tech? Delle vere Smart Cities o Smart Lands, dei Territori Intelligenti, possono viceversa essere intesi come spazi del possibile per le comunità che li abitano e che è cruciale collaborino, negoziando una comune visione di futuro? Per arrivare a questo, che cos’è una città, come definire il concetto di territorio, dell’abitare, del coltivare, apprendere, dell’amare e del desiderare, oggi? Quali cornici di direzione e senso dare allo spazio di relazioni, ai bisogni e alle domande sociali, sfidati ovunque dalla pandemia? Una scuola, ad esempio, posto il suo alto valore sociale, può essere compresa (o progettata) non come contenitore statico di funzioni, ma come processo dinamico all’interno di relazioni multiscalari? Quale capitale semantico, ciò che dà direzione e senso ad un’azione, vogliamo imprimere ai quartieri, alle città e ai nostri territori, in una parola alla nostra esperienza di abitare e di apprendere?
Abbiamo chiesto ad Elena Battaglini di risponderci su un paio di domande possibili
Quali sono, nelle città, le principali sfide poste dalla pandemia?
Il Covid-19, dalla mia prospettiva osservativa, ci ha spinto a ridefinire i codici urbani dello stare assieme. Il cambiamento dei modelli dell’abitare passa, a mio parere, attraverso la trasformazione dei codici del sapere e della conoscenza in termini di mutua costituzione di cultura e natura e, facendo ulteriori salti di scala, di mente e materia (Bateson, 1979; 1987), di corpi e luoghi, tra la città contemporanea e i suoi abitanti. Tra gli strumenti di riscrittura di questi codici, vanno annoverate le tecniche di GIS mapping, di Gis partecipativi (PGis) e di pubblica partecipazione (PPGis). Questi sistemi sono caratterizzati da uno spostamento della tradizionale attenzione dal ‘dove’ le comunità locali vivono a ‘come’ vivono, consentendo di georeferenziare e rappresentare non solo la caratterizzazione organizzativa di un territorio, troppo spesso schiacciata su indicatori quantitativi, ma anche le percezioni, i bisogni e gli interessi delle diverse componenti del vivere locale. Nonostante l’uso prettamente descrittivo o classificatorio dei GIS, i PGis, i PPGis e le altre tecniche di cultural-mapping e co-design costituiscono strumenti preziosi in riferimento alla territorialità attiva, all’identità e all’orientamento dei processi di sviluppo territoriale nel corso del tempo.
I progetti e i processi volti al cambiamento delle relazioni sociali, e al rafforzamento del senso di comunità sono, per concludere, quelli che fanno un uso socialmente generativo degli strumenti e, a livello più generale, degli effetti della rivoluzione digitale, densificati ed ispessiti dall’emergenza Coronavirus. Attraverso il combinato disposto da questi due fenomeni sta, infatti, emergendo un ambiente valoriale e cognitivo in cui è di crescente importanza il senso del fare e del legarsi a progetti, il cui obiettivo non è solo il profitto ma la produzione di conoscenze e di significati da creare e apprezzare in modalità partecipativa, ground-up.
Che cos’è, per lei, una innovazione socioterritoriale ‘intelligente’?
R. La recente crisi pandemica ha accentuato la polarizzazione tra due visioni di futuro che si contendono due diverse modalità di governance dell’abitare: la prima è legata ad una trama statica di dipendenza da merci e beni preconfezionati, al cui bisogno veniamo costantemente educati. L’altra è una visione di libertà a innovarsi e a innovare: una concezione del mondo che vede nel divenire tutto ciò che esiste. Se, nel primo caso, si è ciò che si possiede, nel secondo l’identità di individui, così come quella di organizzazioni e imprese, coincide con ciò che conoscono, ri-conoscono o scoprono. Se la prima visione fa perno sulla conservazione di ruoli, perimetri del sapere, di rendite di posizione o modelli di crescita tradizionale, la seconda fa perno sull’economia di relazioni complesse che, come abbiamo qui voluto illustrare, sono tutte in divenire. In un’epoca in cui i perimetri tra lavoro, occupazione, produzione e processi di apprendimento sono irrintracciabili e, quindi, da ridefinire, i modelli di innovazione territoriale inclusivi e sostenibili fanno essenzialmente perno su parole-chiave quali ‘essere-tra’, interfaccia, infrastruttura. Si tratta quindi di ripensare, e giocare al meglio, i ruoli e le competenze di imprese, B-corps e degli altri stakeholders dello sviluppo, nell’interfacciare e infrastrutturare, anche culturalmente, relazioni sociali inclusive e politiche di sostenibilità territoriale per le nostre città.
Se condividiamo queste riflessioni, la domanda a questo punto è: chi-interfaccia-chi? Quale ruolo hanno, cioè, imprese, organizzazioni e comunità locali, laddove, ormai da tempo, sono prevalenti tecnologie di terzo ordine: tecnologie che mediano tra un numero di altre tecnologie, dando vita a complesse interdipendenze? Cosa intendiamo quando parliamo di innovazione e, in particolare, di innovazione orientata al benessere delle persone, delle comunità urbane? L’innovazione non è un’idea, non è costituita solo da prodotti o brevetti. ma è un campo di ideazione, un processo che fa leva sull’economia della conoscenza e dell’apprendimento, quali driver fondamentali di modelli di sviluppo. Da recenti studi sull’innovazione, sappiamo che essa dispiega i suoi migliori effetti laddove degli ecosistemi cognitivi hanno favorito anche lo scambio di conoscenze implicite: non solo puramente scientifiche o industriali, ma innanzitutto simboliche, quelle che catalizzano significati condivisi, tradizioni e know-how e, dunque, capitale semantico.
In conclusione, per la studiosa, se si condivide che la trama di un sistema socioterritoriale, come una città, sia costituita innanzitutto da relazioni, in termini di intelligenza, conoscenza (e di etica) è dunque molto differente guardare il mondo di cose, persone, politiche da questo punto di vista: è importante considerare la città una rete in cui le politiche pubbliche diano priorità prima ai legami, e solo poi ai singoli nodi. Diversamente dalla narrativa mainstream, per lei, l’AI non sostituirà mai la nostra intelligenza di umani, ma certo ci invita a conoscere e a recuperare quel ‘senso mancante’ a cui si riferiva quell’abitante lunare del meraviglioso volume di Cyrano de Bergerac.