Serve un “whatever it takes” anche per il clima

Siamo in guerra, e come in guerra ogni giorno si consulta il bollettino delle vittime, in questo caso il nemico è subdolo e invisibile, supera le linee di confine e colpisce senza fare distinzioni. I casi accertati di Coronavirus in Italia hanno superato abbondantemente i 30 mila casi e portato il governo ad imporre misure restrittive senza precedenti dal dopoguerra.
Conte si è impegnato a rispondere alla crisi mettendo in campo qualunque risorsa pur di arginare i danni economici e sociali di una sciagura che ci ha colti alla sprovvista. Tuttavia c’è un’altra catastrofe in corso che si sta consumando quasi in silenzio mentre il dibattito globale è focalizzato sull’epidemia.
Di lotta al cambiamento climatico non si sente più parlare e il suo volto simbolo, ovvero quello di Greta Thunberg, sembra un ricordo di giorni in cui c’era tempo di occuparsi anche di ambiente. Certo, le piazze si sono svuotate ma quelle virtuali ancora pullulano di attivisti che chiedono di non abbassare la guardia sui temi ambientali.
La scarsa percezione del pericolo
La percezione del pericolo gioca un ruolo cruciale. Il virus è una minaccia letale che sta mietendo vittime nelle nostre città, sotto gli occhi impotenti dei medici che fronteggiano un nemico sconosciuto. Questa percezione forte comporta la messa in atto di misure drastiche e immediate che con tutta probabilità ci faranno uscire presto dal tunnel.
A questo punto c’è da chiedersi, perché non troviamo la stessa tenacia per limitare l’impatto dell’altro nemico che infetta l’atmosfera ovvero la CO2? La malattia la conosciamo da tempo e un bollettino premonitore lo abbiamo già tra le mani. Riguarda le morti precoci per inquinamento, le vittime di fenomeni climatici estremi e quelle potenziali dell’inesorabile innalzamento dei mari. Ciononostante la nostra paura non è ancora sufficiente per iniziare a pensare sul serio che tutto ciò ci riguardi a tal punto da modificare le nostre abitudini.
Il contenimento del Coronavirus insegna che solo chiare imposizioni dall’alto accompagnate da severe sanzioni per chi non le rispetta possono far sperare in risultati misurabili. Urge un piano strutturato, non è più sufficiente contare su attivisti, cittadini virtuosi e comuni ricicloni: serve il whatever it takes per il clima.
Misure troppo blande
L’onda green dei Fridays For Future ha fatto breccia nel cuore dell’Europa; di recente la Commissione ha presentato una proposta di legge per il clima che mira ad emissioni zero entro il 2050 puntando tutto sul monitoraggio regolare degli Stati membri che dovranno dare conto dei loro progressi.
Il 2050 è un futuro troppo lontano per incoraggiare misure urgenti come auspicato da Greta, invitata a Bruxelles per incassare un’altra lontana promessa. «Se la casa brucia non si aspetta qualche anno per spegnere l’incendio, tuttavia è questo che ci propone la Commissione europea — ha detto l’attivista svedese per cui la proposta assomiglia ad una resa. La resa c’è da pensare avvenga di fronte ad evidenze scientifiche inequivocabili. Non si contano più gli allarmi degli esperti che ormai appartengono ad una quotidianità segnata dall’inazione.
L’allarme dal mondo scientifico
Lo scioglimento dei ghiacci sta avvenendo ad una velocità sei volte superiore a quella degli anni Novanta. I dati elaborati dall’Università di Leeds potrebbero trovare supporto in quelli relativi al 2019 che si prospetta come l’annus horribilis per i ghiacciai da quando esistono le rilevazioni. Dalla base ucraina Vernadsky sull’isola di Galindez sono arrivate immagini della neve tinta di rosso a causa di un’alga comparsa per le temperature troppo elevate.
Un team di scienziati europei ha pubblicato uno studio su Nature Climate Change in cui prevede la scomparsa di almeno un quarto delle spiagge sabbiose di tutto il mondo entro la fine di questo secolo. Questo significa che almeno 630 milioni di persone si trovano in aree a rischio inondazioni causate dall’innalzamento dei livelli del mare. Il numero di potenziali vittime e la dimensione dei danni economici dietro la cifra elaborata da Climate Central dovrebbero destare seria preoccupazione.
Non delineano scenari rassicuranti nemmeno i numeri forniti dall’Istituto Max Planck in collaborazione con l’Università di Magonza che calcola 9 milioni di morti premature l’anno a causa dell’inquinamento (peggio di fumo, Aids e malaria) utilizzando l’espressione “pandemia da inquinamento”.
E se è vera la previsione degli esperti dell’Onu, i quali stimano un aumento della temperatura di 5 gradi entro la fine del secolo, bisogna iniziare a tenere conto degli eventi meteorologici sempre più violenti che si stanno già moltiplicando.
Se questi dati non ci fanno ancora abbastanza paura, almeno agiamo per lo stesso senso di responsabilità collettivo per cui oggi si sceglie di stare a casa. Se non riusciamo a provarla, quanto meno facciamoci carico della paura che eviteremo alla prossima generazione consegnata ad un ecosistema che scatenerà la sua forza distruttiva quando sarà troppo tardi per agire.