Rivolte nelle carceri. Le vite a latere costrette alla noncuranza

Soli più di prima. Dobbiamo partire da qui se vogliamo attribuire un senso alle rivolte nelle carceri e andare oltre l’ostinata tentazione a colpevolizzare i detenuti a qualunque costo.
Ogni vicenda ha i suoi personaggi invisibili, quelli che passano inosservati o le cui azioni ci lasciano impassibili. Questa è da sempre la sorte delle persone recluse all’interno degli istituti penitenziari, è la sorte delle vite a latere. Di quelle persone che vivono, si, ma sempre mentre accade qualcosa di più rilevante.
Rivolte nelle carceri: il tentativo esasperato per essere visti
Alcuni reparti delle carceri interessate dalle rivolte hanno reagito alla notizia della diffusione del coronavirus in Italia urlando, facendo casino. Volevano essere visti. Non vogliono essere lasciati soli e dimenticati nel pieno di un’emergenza sanitaria di questa portata. Invece sono soli e dimenticati più di prima.
Camus apre il Mito di Sisifo con la domanda suprema tra tutte le domande e scrive: «vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». Rispondere a questo quesito non è solo il primo problema della filosofia, è il primo problema di ogni esistenza: qual è la vita che vale la pena vivere?
Sembra quasi un gioco di parole se riportato nelle realtà carcerarie: i detenuti scontano una pena per vivere una vita che ne varrà lo sforzo.
Ciò che mantiene in vita quando si è ristretti dentro un carcere è il pensiero, ossia quel portarsi fuori che trattiene in sé la potenza e il sapore della libertà. Ricordare un luogo o un volto significa smettere di sentire costantemente le sbarre. Accedere ai colloqui, incontrare i volontari è altro ancora, è resistere un po’ a quelle sbarre e vincerle in qualche modo. È dare alla domanda di Camus la risposta più rassicurante: sì, la mia vita vale la pena di essere vissuta.
Si parla e si scrive continuamente dell’emergenza covid19, dei danni all’economia e di quali saranno i passi da muovere per non ripiombare nella crisi nera. Non si parla e non si scrive affatto delle persone morte: si riportano i numeri ma non i nomi, non le loro storie, non si dà voce ai familiari che li piangono. Passata l’emergenza, superato il confinamento nel quale stiamo vivendo, queste persone avranno spazio, riusciremo a dire chi erano e perché non ce l’hanno fatta.
Chi non avrà voce, o avrà voce davvero bassa, sono le 13 persone morte durante le rivolte nelle carceri. Il governo, né nella figura di Conte tanto meno in quella di Bonafede, ha mai affrontato seriamente il problema. Nella conferenza stampa dello scorso lunedì, il presidente del Consiglio si è limitato ad affermare che qualora le rivolte non avessero cessato sarebbe stato mobilitato l’esercito.
Mentre il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, si è limitato a definirli in Senato “atti criminali”. È vero che durante le rivolte alcune strutture hanno riportato molti danni sia all’interno delle celle, sia all’interno di alcuni spazi comuni come le infermerie e le biblioteche nelle quali sono stati bruciati anche dei libri.

Le rivolte in carcere hanno avuto e stanno avendo pesanti ripercussioni anche sui detenuti stessi, soprattutto su coloro che non ne hanno preso parte ma che vedono comunque peggiorate le loro condizioni di vita.
Dalle informazioni divulgate dai vari istituti penitenziari e dai rapporti inviati al Garante nazionale, Mauro Palma, sappiamo che la maggior parte di questi detenuti sono morti per overdose da metadone o da altri medicinali presi dalle infermerie, ma che almeno 4 sono morti durante trasferimenti in altre strutture detentive.
Le domande che sorgono spontanee sono due, la prima: perché trattenere in carcere tossicodipendenti che approfittano del subbuglio generale per lenire le crisi di astinenza? La seconda: perché trasferire delle persone in condizioni di salute non stabili che sono addirittura morte durante il trasferimento?
Varie associazioni già da qualche settimana stanno proponendo la strada dell’indulto per abbassare il livello del sovraffollamento carcerario e quindi evitare che la diffusione del coronavirus abbia una portata devastante, qualora dovesse avvenire all’interno degli istituti di detenzione.

Con un indulto di due anni, uscirebbero quasi 17mila detenuti, con un indulto di tre anni, come quello del 2003, più di 24mila.
Le rivolte nelle carceri sono state esplosione rabbiosa della disperazione, della costrizione a vivere tutti i giorni, a tutte le ore del giorno, a meno di mezzo metro di distanza l’uno dell’altro, del bisogno di dire “siamo qui e siamo persone a rischio contagio anche noi”. Le rivolte nelle carceri sono, seppur nell’assoluta irrazionalità, l’estremo tentativo di salvataggio contro l’estraneazione totale dal mondo esterno.