DAC6: la nuova direttiva europea contro il trasferimento degli utili all’estero

Il 29 gennaio 2020 il Consiglio dei Ministri ha approvato in esame preliminare il decreto di attuazione della Direttiva DAC6. La nuova direttiva europea nasce con lo scopo di scoraggiare le attività di elusione fiscale, consentendo alle amministrazioni finanziarie di conoscere tempestivamente i meccanismi transfrontalieri considerati anche solo potenzialmente aggressivi.
Si tratterebbe di quelle attività poste in essere a livello internazionale con lo scopo di sfruttare asimmetrie di trattamenti fiscali tra paesi diversi in ambito europeo che comportano una diminuzione dell’introito degli Stati a titolo di imposte societarie.
Abbiamo chiesto alla Dott.ssa Barbara Cortese, responsabile delle Relazioni Istituzionali di Assoholding, di fare luce sui punti chiave e strategici della direttiva, prossima all’ufficializzazione.
Qual è la finalità della DAC6?
La finalità di questa nuova direttiva europea è di contrastare l’evasione fiscale internazionale. Più precisamente mira a colpire tutti quei meccanismi transfrontalieri di pianificazione fiscale aggressiva, posti in essere con finalità meramente elusive e, dunque, volti a ottenere una riduzione delle imposte mediante il trasferimento degli utili imponibili verso Paesi in cui vi sono regimi tributari più favorevoli. L’intenzione quindi è anche quella di ridurre i danni dell’erosione degli utili delle società multinazionali e quindi le entrate tributarie dei paesi europei provocati dalla crisi del 2008.
Quando entrerà in vigore la direttiva?
La Direttiva entrerà in vigore il 1° luglio del 2020. Tuttavia, si badi bene, esiste un obbligo di segnalazione retroattiva per gli accordi transfrontalieri “fiscalmente aggressivi” che sono stati posti in essere tra il 25 giugno 2018 ed il 1° luglio 2020.
La prima scadenza è fissata per il 31 agosto 2020, pertanto i professionisti, gli intermediari ed anche i contribuenti, dovranno riferire alle rispettive autorità fiscali competenti, esponendosi al rischio di sanzioni qualora fossero inadempienti.
Quali sono i punti chiave della DAC6?
In primis il fatto che la nuova Direttiva europea prenda di mira gli accordi fiscali che siano anche solo potenzialmente aggressivi, il che vuol dire che si riferisce anche ad accordi perfettamente legali sotto il profilo formale, ma che comportano un’erosione della base imponibile laddove fossero state poste in essere nel rispetto di valide ragioni economiche.
Inoltre la retroattività della norma impone alle aziende l’urgenza di verificare l’impatto della nuova direttiva sui contratti già realizzati o anche solo programmati.
Altra grande novità rispetto alla normalità degli accertamenti nei confronti dei soggetti passivi di imposta è rappresentata dal fatto che l’obbligo di comunicazione ricada, in caso di assenza di un intermediario, anche direttamente sui contribuenti.
In linea di principio però ogni contribuente ha il diritto di organizzare i propri affari in modo da pagare meno tasse. Come si pone questa normativa nel contrasto al risparmio d’imposta?
Alcune forme di risparmio d’imposta sono sanzionate perché esprimono un disvalore giuridico. Mi spiego meglio: esistono dei modi per occultare fatti che generano debiti d’imposta anche attraverso aggiramenti della normativa. Ad esempio si verificano disparità tra ordinamenti fiscali diversi che consentono che una ricchezza non sia tassata nel paese dove è prodotta ma in un paese a fiscalità privilegiata. Oppure che non venga proprio tassata attraverso l’utilizzo di strumenti cosiddetti ibridi. Infatti le suddette operazioni da comunicare derivano per lo più da operazioni attuate attraverso l’utilizzo dei suddetti strumenti ibridi.
Cosa si intende per strumenti ibridi?
Si tratta di quelle operazioni o strategie che cercano di sfruttare asimmetrie tra i diversi paesi nazionali con lo scopo di avvantaggiarsi sotto il profilo fiscale. Due esempi potrebbero consentire di metterli più a fuoco. Il primo relativo alla tipica operazione transfrontaliera elusiva: se da un paese europeo una società invia soldi a una succursale estera con causale “versamento in conto capitale” e nel paese di arrivo il versamento è considerato un “finanziamento” la società che invia i soldi non paga nessuna imposta poiché non consegue interessi attivi tassabili mentre la società che riceve il denaro detrae dal proprio reddito gli interessi passivi attribuibili al versamento ricevuto poiché lo classifica quale finanziamento ricevuto. In questo caso c’è un paese che non tassa e un altro in cui si pagano meno imposte per via della detrazione degli interessi passivi dal reddito ancorché figurativi.
Con riferimento invece agli strumenti sfruttabili si può senz’altro riportare l’esempio di MacDonald, cioè un’impresa residente nello Stato A che esenta gli utili prodotti da una sua succursale nello Stato B. A sua volta lo Stato B non considera la succursale come entità e non la tassa. Il risultato è che gli utili dell’impresa, riferibili alla succursale nello Stato B non sono tassati né nello Stato A né nello Stato B.
Come si fa, nei paesi europei, a tracciare il reddito prodotto dai giganti del web, che si domiciliano nei paesi a bassa fiscalità?
Quella dei colossi del web è una questione molto complessa, parte da lontano. Innanzitutto le loro sede europee si trovano prevalentemente nei paesi a bassa fiscalità come Irlanda, Olanda e Lussemburgo. In Italia, come in Francia, è stata istituita la cosiddetta Web Tax che prevede una aliquota del 3% sui proventi realizzati nel paese basati sulla presenza digitale in ognuno dei due paesi. Ma non è così semplice perché per acquisire queste imposte occorre prima di tutto vincere una battaglia con gli Stati Uniti, che difendono i vari Google, Facebook, Amazon e tendono a tassarli solo nel loro paese federale poiché si tratta di colossi americani. Il presidente Trump è anche arrivato a minacciare la Francia e l’Italia di mettere dazi sui vini qualora insistessero con una tassazione, non armonizzata con quella degli Usa, nei confronti di questi soggetti. Questo ha portato i due paesi europei ad aggiustare un po’ il tiro, impegnandosi a restituire eventuali eccedenze di imposte acquisite qualora, una volta armonizzate, le imposte acquisite si dimostrassero eccedenti.
Ma come si può calcolare il reddito prodotto in Italia da uno di questi giganti?
Dare una risposta non è affatto semplice. Solo loro, attraverso i big data che possiedono e di cui sono gelosissimi, conoscono questi dati. La proposta di Assoholding è piuttosto semplice e pragmatica e parte proprio dai proventi che questi big conseguono in Europa e che vengono esposti nei loro bilanci, per attribuire una percentuale dei ricavi ad ogni paese europeo secondo il seguente assunto: in Europa siamo circa 400milioni di persone e in Italia circa 60milioni corrispondenti a circa il 15% della popolazione europea. In modo forfettario si potrebbe ipotizzare che il 15% dei proventi europei sia attribuibile allo Stato italiano che potrebbe inizialmente tassare questa fetta dei ricavi totali solo in via provvisoria per poterli poi confermare o smentire ad iniziativa di questi contribuenti che sarebbero così indotti a presentare i loro big data con i redditi effettivi conseguiti in ogni Stato della Ue.