Elezioni Hong Kong: 90% ai democratici, come reagirà Pechino?

L’esito delle elezioni è il risultato delle proteste
Le elezioni di Hong Kong hanno decretato quello che le manifestazioni popolari facevano presagire già da tempo, ovvero che la popolazione dell’ex colonia britannica non accetta più il principio “un paese due sistemi” nei termini stabiliti da Pechino. Il risultato è impressionante, i democratici hanno ottenuto il 90% dei seggi.
Ora resta da chiedersi cosa accadrà, dopo che per sei ininterrotti mesi, ad Hong Kong, si è assistito a forti scontri tra la popolazione locale e la polizia governativa. Carrie Lam la governatrice vicina al regime, ha dichiarato che verrà rispettato l’esito delle elezioni e che tutto si svolgerà in maniera pacifica.
Su 452 seggi in palio il fronte democratico ne ha conquistati 396. Dopo mezzo anno di proteste i cittadini di Hong Kong si sono riversati in massa alle urne: l’affluenza è stata del 71%, più 32% rispetto al 2015. Se le parole di Carrie Lam hanno trasmesso il desiderio che la situazione si evolva in maniera ordinata, è possibile pensare che non sia così.
Pechino non può più dimostrarsi attendista verso Hong Kong
Da quando sono scoppiate le rivolte ad Hong Kong, Pechino non ha mai affondato la mano sulla repressione, adottando già da giugno una posizione attendista. In un certo senso, è qualcosa che il regime non gradirebbe fare; vista l’esposizione mediatica dell’ex colonia sarebbe una denigrazione per l’immagine della Cina nel mondo. D’altra parte, però, Xi Jinping non può rischiare che la rivoluzione colorata si diffonda in altre zone controllate dal regime.
Così già da quest’estate, mesi prima delle elezioni, tra il fronte democratico c’erano due umori, uno di quelli che ritenevano fattibile la rivolta, l’altro, invece, di quelli che la vedevano spazzata dal pugno duro di Pechino. I primi, considerando la rilevanza della regione nel commercio internazionale e il formale appoggio degli Stati Uniti, si aspettavano che arrivasse un momento in cui il governo cinese non avesse altra scelta che cedere alle richieste dei manifestanti di Hong Kong. I pessimisti, al contrario, credevano che quando fosse arrivato un punto di non ritorno la Cina avrebbe represso i ribelli.
L’esito delle elezioni è il momento che doveva arrivare. Adesso a Pechino non resta altro che decidere. La posizione attendista non sembra più praticabile. I manifestanti hanno espresso le loro richieste in una piattaforma di cinque misure. Dopo che mesi fa il governo di Carrie Lam con l’assenso di Pechino aveva prima sospeso e poi ritirato la legge per l’estradizione, le manifestazioni sono continuate in maniera sempre più accesa. Quindi è presumibile che se Pechino non ascolterà le richieste dei ribelli di Hong Kong, dopo il successo elettorale, la situazione potrebbe criticamente degenerare ancora in due modi.
In un caso in cui Pechino fosse più concessiva, questo atteggiamento segnerebbe un allontanamento dell’ex colonia dalla disposizione del regime e altri sviluppi legati alla politica interna del paese. Oppure, come scriveva su Limes Deng Yuan, ricercatore di relazioni internazionali all’università di Hong Kong, il regime pechinese, prima o poi, interverrà a reprimere i rivoltosi. In realtà è prematuro ed avventato esprimere un giudizio su come Pechino possa comportarsi nei confronti di Hong Kong.
Le elezioni di Hong Kong sono lo specchio della sua storia
Al ritorno dal G20 il ministro degli Esteri, Wang Yi, ha sottolineato che, nonostante l’esito delle elezioni, “Hong Kong è parte integrante della Cina” e come tale, ha aggiunto, “qualsiasi tentativo di danneggiare il livello di prosperità e stabilità della città, non avrà successo”. Queste parole rivelano quello che è l’atteggiamento di Pechino, ovvero di scetticismo sulla natura della rivolta. Xi Jinping e il resto dell’elités cinese, da quando la rivolta è iniziata, sospettano che ci siano delle interferenze anglo-americane su quanto sta accadendo ad Hong Kong.
Credere che la rivolta, in un certo senso, sia pilotata o quantomeno sostenuta dagli Stati Uniti, è lecito dalla prospettiva di Pechino; credere che questa stessa insurrezione nasca solamente dall’alto non lo è. La situazione socio-economica di Hong Kong è in crisi e peggiora ormai da anni. Aldilà delle richieste legislative, come quella dell’estrazione, o i cinque punti della piattaforma che chiedono la democrazia irreversibile, una commissione d’inchiesta sulla polizia, l’amnistia per i ribelli e l’elezione del nuovo governatore a suffragio universale e non attraverso i collegi, tutte richieste legittime e a vantaggio della democrazia, Pechino dovrebbe rivedere il modello impiantato ad Hong Kong. Il prezzo delle case alle stelle e il tasso di disuguaglianza è elevato rispetto alla grandezza economica della zona.
Del resto Hong Kong è un territorio che appartiene al regime cinese dal ’97 dopo che per cento anni era stato sotto il dominio coloniale britannico. Gli inglesi avevano conquistato il territorio di Hong Kong attraverso le guerre dell’Oppio e soltanto a fine millennio i cinesi poterono riottenerlo. Durante il dominio della corona, ad Hong Kong si instaurò un capitalismo molto rigido; “la madre patria” è sempre stata cinica, mettendo in secondo piano la giustizia sociale. Quando Hong Kong è tornata ai cinesi, Pechino si è accordato con le elités del luogo riuscendo a continuare a far crescere la città e il suo porto come uno degli snodi più importanti nel commercio e nella finanza internazionale, faticando, sempre di più, a mantenere il controllo della bilancia sociale.
Non è la prima volta, infatti, che, da quando Hong Kong è tornata sotto il dominio di Pechino, si verificano serie manifestazioni di dissenso tra la popolazione del posto e il regime di Pechino. Qualche anno fa, ebbe molta risonanza mediatica la rivoluzione degli ombrelli. Oggi, però, i ribelli di Hong Kong sembrava veramente decisi a porre la Cina davanti una scelta, che dovrà necessariamente compiersi dopo l’esito schiacciante delle elezioni. Sicuramente Hong Kong ha i suoi problemi, è probabile anche che gli Stati Uniti abbiano interferito con la protesta, per questo, senz’altro, si può escludere che questa rivolta possa concludersi così. La Cina dovrà scegliere, aprire ad un sistema più libero o difendere l’attuale con la repressione?