La supercazzola sul divieto alla cannabis light

Da ieri produttori e commercianti di canapa sativa tremano alla luce di una sentenza della Cassazione che definirebbe un reato la commercializzazione di fiori, oli e resina derivanti anche dalla coltivazione di cannabis con THC inferiore allo 0,6%. In quanto reato, la vendita di tali prodotti, secondo le sezioni penali unite della Suprema Corte, andrebbe punita come previsto dal Testo unico stupefacenti (articolo 73, commi 1 e 4) “salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.
Questa sentenza, se venisse confermata, costituirebbe un durissimo colpo per le centinaia di shops di cannabis light comparsi negli ultimi due anni nel nostro paese.
L’aspetto che da forza a questa decisione della Cassazione, è l’assenza all’interno della legge n. 242 del dicembre 2016, di alcun riferimento alla possibilità di commercializzazione delle piante, inflorescenze e olio di cannabis light. La legge approvata due anni fa per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa, fa riferimento alle piante coltivate e dice quali loro derivati possono essere venduti e in che misura le coltivazioni risultino a norma di legge. Il livello di principio attivo THC massimo tollerato è 0,6%; tra lo 0,2% e lo 0,6% l’agricoltore non infrange nessuna regola.
Ammesso che sì, in effetti la legge 242/2016 non faccia menzione di fiori, resine e oli, sugli effetti droganti della cannabis light, sembrava già chiaro a tutti che questa non ne producesse.
Come ha affermato giustamente il commerciante di Sanremo che ha proposto una class action contro la sentenza della Cassazione, vietare la canapa sativa per combattere la droga è come vietare le bevande analcoliche per contrastare l’abuso di alcool. Oppure, aggiungiamo noi, sarebbe come vietare l’uso di sostanze analcoliche salvo che questi prodotti siano in concreto privi di alcool (eh???). Una cosa da far venire il mal di testa.
Riguardo la questione dell’efficacia drogante è intervenuta anche Federcanapa che ribadisce la soglia del principio attivo THC fissata attorno allo 0,5% “come da consolidata letteratura scientifica e dalla tossicologia forense”.
È proprio in questo – apparentemente – sicuro territorio di zero virgola, che dal 2016 in Italia hanno iniziato a moltiplicarsi negozi che commercializzano canapa e derivati con livelli di THC bassi. Inoltre, dietro alle bustine che contengono i fiori, i commercianti hanno posto quella che fino ad oggi poteva essere un ulteriore scudo contro eventuali attacchi nei loro confronti. Un’avvertenza sul retro della confezione specifica come il prodotto sia acquistabile per collezionismo e non per essere fumato. Per quanto buffo possa essere collezionare bustine di canapa, i produttori, consapevoli dell’ambiguità normativa dietro al loro business, hanno adottato questa misura per tutelarsi.
A poco sembra essere servito però questo trucchetto ad un business che conta quasi 1500 imprese che hanno creato un giro di affari di almeno 150 milioni di euro all’anno.
Quello che c’è da augurarsi ora per i molti commerciati che hanno investito – magari abbandonato precedenti attività – per entrare nel settore della canapa, è che la legge metta bene in chiaro cosa si può vendere o no e in quale misura si possa parlare di effetto drogante e dunque di spaccio di droga vero e proprio.
Ma da dove è partita tutta questa storia, c’è da chiedersi. A mettere in ginocchio un intero settore potrebbe essere stato un furbetto con una catena di negozi di cannabis light – che poi si è scoperto non essere light affatto – tra Macerata e Ancora che l’anno scorso ha subito dei sequestri presso due delle sue attività in seguito ai controlli delle forze dell’ordine. La sentenza della Corte Suprema è arrivata proprio in accoglienza del ricorso del pm di Ancona la quale si è opposta alla revoca del sequestro di prodotti in vendita in un negozio di proprietà dello stesso furbetto denunciato l’estate scorsa.
Mentre un intero settore è in subbuglio – oggi molti commercianti hanno sospeso le vendite per non correre rischi – e in una condizione di incertezza normativa, dalle file della politica alcuni esultano. Tra i primi a farlo c’è proprio il ministro dell’Interno Salvini che non ha mai nascosto la sua intenzione di fare guerra alla cannabis light. Ad accompagnalo nei festeggiamenti anche il ministro dell’Istruzione Bussetti che si è detto contrario ad ogni tipo di droga e di conseguenza all sua commercializzazione. Questa affermazione del ministro è l’ennesima prova della poca chiarezza sull’argomento che arriva dalle stesse istituzioni che collocano la canapa sativa nel medesimo calderone delle droghe.
Quel che rimane a questo punto è un grande amaro in bocca, un amaro che sa di imprese che rischiano di chiudere in un momento in cui il problema disoccupazione sembra essere messo sul piatto solo quando è conveniente. Un vero saporaccio, quello di un apparato legislativo che più che punire chi davvero spaccia, si diverte con complicate interpretazioni delle norme già esistenti seminando confusione e smarrimento dopo aver permesso a centinaia di aziende di aprire indisturbate.