L’Ue protegge il pesce spada, ma l’Italia respinge le quote di pesca

Nel 2017 la Commissione Ue ha stabilito delle quote di pesca per il pesce spada con lo scopo di tutelare una specie preziosa per il Mar Mediterraneo, i cui esemplari da decenni sono in forte declino.
L’iniziativa ha scontentato non poche associazioni di categoria del nostro paese – il principale pescatore di spada in Europa – le quali, attraverso l’allora Ministro Martina, hanno fatto ricorso contro la decisione di Bruxelles.
Notizia di qualche giorno fa, l’Ue ha respinto il ricorso dell’Italia lasciando l’amaro in bocca ai tanti che vedono minacciata la loro principale fonte di profitto.
La questione, analizzando le ragioni di entrambe le parti, è tutt’altro che banale e facilmente risolvibile facendo la distinzione tra buoni e cattivi.
Partendo dal cuore del problema, è innegabile che il pesce spada sia sempre meno nei nostri mari. Questo ha messo d’accordo sia i pescatori che gli ambientalisti i quali, ancora prima che la Commissione Ue intervenisse, lanciarono l’allarme riguardo la sofferenza della specie ittica.
Secondo dati Greenpeace, lo spada è diminuito progressivamente dagli anni Settanta a causa della mancanza di controlli adeguati e per mano di chi pratica la pesca illegale. Quando nella rete finiscono esemplari troppo giovani prima che possano riprodursi, si va ad impedire il processo di ripopolamento dei mari compromettendo la sopravvivenza di un’intera specie.
Anche il WWF nel 2016 lanciò un chiaro appello ai paesi dell’Iccat – Commissione internazionale per la conservazione dei tunnidi nell’Atlantico – chiedendo loro di applicare allo spada le stesse tutele che salvarono il tonno rosso.
Nel 2017, per fare fronte alla situazione, è intervenuta l’Unione Europea, imponendo un piano di recupero che prevede quote di pesca da distribuire a livello nazionale dando la priorità alla pesca artigianale. Secondo la normativa europea, la quota è destinata a diminuire progressivamente anno dopo anno.
Altre misure riguardano la presenza obbligatoria di un registro delle catture a bordo dei pescherecci e un periodo di fermo pesca, come previsto dall’Iccat, che nel caso dello spada va da gennaio a marzo.
Nel 2017 il primo a muoversi contro delle quote ritenute troppo penalizzanti per il settore, fu l’allora Ministro delle Politiche agricole e Forestali Martina che avviò un ricorso alla Corte di Giustizia europea, che ora sappiamo essere stato respinto.
Non è un caso che l’ex ministro Martina fece annuncio di ricorso proprio da Palermo. In Sicilia sopravvive una forte tradizione di pesca allo spada con il palangaro e la flotta siciliana conta per quasi la metà di quella nazionale. Quello che chiedevano i pescatori era un innalzamento della quota di pesca o quanto meno delle misure alternative e meno invasive per il settore.
Per la Corte le misure adottate sono proporzionate in quanto tengono contro sia dell’interesse dei pescatori, che della necessità di una gestione sostenibile delle risorse marine minacciate dalla sovrapesca.
Quello che preoccupa maggiormente i pescatori, quelli siciliani in prima fila, è la soglia di cattura, a loro avviso, troppo bassa. All’Italia spettano 3723,36 tonnellate annue di pesce spada, che secondo l’Alleanza delle Cooperative pesca, sono cinquecento in meno rispetto alla produzione registrata negli ultimi anni. La diretta conseguenza delle quote spada sarebbe non solo la perdita di posti di lavoro ma anche un aumento dell’importazione di pesce dall’estero a favore di paesi del nord Africa e della Spagna.
La cosa certa è che prima del 2017 era necessario che qualcosa cambiasse. E per far avvenire il cambiamento una delle parti deve essere disposa a perdere qualcosa.
Che il sacrificio sia molto doloroso ma altrettanto necessario, lo sanno bene i pescatori di tonno rosso messi in ginocchio nel 2007 dall’introduzione di nuove norme di cattura a fronte di una riduzione dei banchi di tonni che aveva toccato l’80%.
Non dimentichiamo che proprio grazie a quello stop il tonno rosso è tornato a popolare il Mediterraneo. Una verità che mette d’accordo ambientalisti e addetti alla pesca, ma la domanda rimane una, cosa siamo disposti a perdere per il bene dei mari?