Contro l’ideologia del ‘patrimonio artistico’

La più menzionata tra le miracolose ricette per uscire dalla crisi economica, sociale e politica, è la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale italiano. I partiti politici e i loro leader hanno imparato a memoria la formula magica, la ripetono continuamente in comizi e campagne elettorali. Già qui ci sarebbe un valido motivo per insospettirsi. Non possiamo non constatare, però, che l’idea è ampiamente diffusa anche tra i membri della società civile, dal mondo dell’accademia alle chiacchiere nei bar- quelli senza le slot machines, dove si pensa, si distrugge e si ricostruisce il futuro dell’Italia tra un caffè e un bicchiere di vino. L’Italia ha un immenso patrimonio artistico, i territori e tutto il paese hanno questa ‘vocazione’ da sfruttare. Ne siamo sicuri? In questa sede vorrei argomentare l’esatto contrario, o meglio, vorrei mostrare come la retorica sul patrimonio artistico sia diventata non solo un’ideologia ma anche uno strumento nocivo per il Paese.
Un’ideologia nasce dalla pretesa di leggere, interpretare, risolvere tutti gli elementi del reale a partire da una sola idea. Nel caso specifico, la panacea ai gravi problemi socio-economici sarebbe la messa a reddito – pensate al turismo – dei patrimoni artistici del nostro Paese e la valorizzazione di quelli già sfruttati. L’uso ideologico, nel mondo della politica, è evidente: pensate all’aumento esponenziale del numero dei proclami ‘culturali’ prima delle elezioni comunali, provinciali o regionali. Pensate poi all’effettiva realizzazione delle promesse fatte durante quello che, senza scandalo, possiamo definire ‘mercato elettorale’.
Fin qui nulla di nuovo sotto il sole, sto semplicemente denunciando l’uso strumentale di un tema sociale come molti altri. Il mio sospetto, però, è che nel tema stesso si celi un grande fraintendimento. La vocazione di un territorio, infatti, non si giudica dalle risorse culturali e naturali presenti, o almeno non solo a partire da quelle. Pensate alle vocazioni/chiamate dei profeti: c’è un messaggio, c’è qualcuno che chiama, ma ci sono anche persone che ricevono la chiamata e le circostanze in cui questa avviene. Gli ultimi due elementi, persone e circostanze, sono mutevoli, cosicché la chiamata viene spesso re-interpretata, modificata se non fraintesa o abbandonata. Allo stesso modo, benché sia un’opportunità e una risorsa da tenere in considerazione, il nostro patrimonio artistico non ci lega ad esso in maniera indissolubile. La vocazione non è (solo) nel nostro territorio, ma nelle persone. La prima lega e distrugge, la seconda libera e crea. Gli italiani del secolo scorso, e tanti di adesso, si sono cimentanti in tante sfere che non appartengo alla nostra storia o alle nostre risorse ed hanno ottenuto ottimi risultati. Ad un certo punto, per esempio, abbiamo deciso di fare automobili e le abbiamo fatte in maniera eccellente e competitiva per anni. Ancora, oggi c’è un intero settore italiano di startup e di industria 4.0 che conquista i mercati internazionali. La nostra specificità sta forse nel potenziale creativo delle persone e delle comunità, e investire solo su ciò che è già a nostra disposizione è un rischio.
Vado oltre. Ho l’impressione che sotto lo slogan ‘valorizzazione del patrimonio artistico’ si nasconda un’ottica familista, clientelare, favorevole al mantenimento dello status quo. C’è un discorso di fondi pubblici da indirizzare e di appalti non sempre convincenti che conosciamo bene. In un meccanismo perverso e auto-perpetuantesi, più si proclama la valorizzazione di qualcosa più si crea disvalore. Non è sempre vero che il patrimonio artistico viene tutelato e valorizzato da chi ha la pretesa di farlo. Anzi, dopo un primo tentativo il bene artistico o culturale viene abbandonato, pensando di poterlo gestire come fonte di reddito, anzi di rendita (rendita:nvivo bene oggi col lavoro fatto ieri). Di conseguenza il patrimonio diventa sterile, infecondo, come le persone che lo curano o che sono costrette a curarlo.
È sempre triste dover dedicare un paragrafo a delle precisazioni, ma forse non è inutile. Non si sta sostenendo l’abbandono del nostro patrimonio artistico o culturale, né l’omologazione a logiche economiche nord-europee o atlantiche. Né stiamo combattendo una battaglia per il merito e la meritocrazia, due termini terribili che nascondo riduzionsimi, diseguaglianze e soprusi ancora da svelare. E tuttavia permane la convinzione che una critica a questa nuova ideologia sia necessaria, altrimenti rischiamo un risultato doppiamente negativo, e negli investimenti in nuovi settori e nella valorizzazione dei vecchi.
L’economista Giammaria Ortes, come tanti grandi studiosi italiani oramai dimenticato, scriveva nel 1700 che la ricchezza di un popolo è la sua gente. Aveva ed ha ragione, come tutti i grandi del passato che riescono sempre ad essere attuali. Il nostro patrimonio sono in primo luogo le persone e le comunità, e poi i beni naturali e culturali. L’ideologia lasciamola a qualcun altro.