Khmer Rossi, guerra civile, genocidio
Genocidio: un argomento ancora tabù nelle famiglie e nelle comunità cambogiane per quanto le ferite e le piaghe sono profonde e fanno fatica a cicatrizzarsi. Questo 2015rappresenta la data anniversario di due terribili genocidi, i 40 anni della caduta di Phnom Penh e del genocidio cambogiano e i 100 anni di quello Armeno. Del genocidio armeno abbiamo parlato a lungo, come lo ha fatto la stampa di mezzo mondo, riportando alla memoria eventi impolverati dal tempo o dalla volontà di qualche governante poco sincero. Volgiamo qui ripercorrere la Storia di quel triste periodo vissuto dalla Cambogia per permettere a chi ne avesse perso traccia (per quanto non sia poi passato molto tempo), di far riaffiorare alla memoria quei momenti tragici e riflettere sul futuro della Storia.
Esattamente 40 anni fa (il 17 Aprile del 1975) il Regno di Cambogia ha conosciuto il genocidio per mano dei Khmer Rossi, sotto il regime comunista estremista di Pol Pot. Una tragedia dolorosa e indimenticabile del secolo scorso, uno dei tanti genocidi del XX secolo. All’arrivo al potere dei Khmer Rossi il 17 Aprile del 1975, le truppe di Pol Pot entrarono a Phnom Pehn. La capitale fu devastata per mano di truppe di giovani scheletrici dallo sguardo stralunato, vestiti tutti di nero e armati fino ai denti. Gli abitanti furono sottomessi ad una dittatura dai tratti di una violenza senza precedenti. I deportati vengono portati in campi di lavoro e di rieducazione e costretti a lavori molto duri e umilianti. Il cibo spesso si riassume in due mestoli di acqua di cottura del riso a persona al giorno. La mortalità nei campi raggiunge subito cifre impressionanti. Il popolo viene ridotto in schiavitù. Le classi sociali vengono vietate, gli artisti e gli intellettuali martoriati e costretti a confessioni che valevano un’esecuzione rapida, spesso con una colpo di piccone sul cranio, perché le pallottole non andavano “sprecate”. Gli omicidi avvengono per categorie ben precise. Su 550 magistrati ne sopravvissero 4. I Khemr Rossi procedono al massacro per imporre la loro autorità e piegare qualsiasi velleità di resistenza. I valori fondamentali della proprietà privata, dei legami famigliari della religione vengono distrutti, polverizzati, vietati per il bene delle “collettività”. “Una marea umana marciava dall’alba alla caduta della sera. Qualcuno errava senza destinazione. Chi era stanco non aveva diritto al riposo perché le truppe li forzava a camminare, anche di notte. Molti cadaveri rimanevano a terra, galleggiavano sugli stagni, sui laghi o suii canali”, sono le parole del grande fotografo Mak Remissa, ma somigliano tristemente a quelle di ogni testimone di deportazione. Remissa aveva 7 anni quando i Khmer Rossi entrarono a Phnom Penh e come molti sopravvissuti ha avuto per moltissimo tempo grandi difficoltà a rievocare quel tragico passato, difficoltà che ha superato ricostruendolo attraverso fotografie cariche di sensibilità.
I Khmer Rossi si ripromettono di trasformare la Cambogia in una dittatura di rara violenza, fondando l’economia del Paese sul nazionalismo e sullo sviluppo centralizzato, trasformando il popolo nel nulla. Tra il 1975 e il 1979,un quarto della popolazione fu massacrato per la follia omicida dell’Angkar (nome del Regime di Pol Pot). Il bilancio finale conterà 2 milioni di vittime su di una popolazione totale di 7 milioni e mezzo di abitanti. Nel 1979 i “comunisti” vietnamiti rovesciano il regime dei Khmer Rossi “liberando” il Paese dalla dittatura e istaurando la Repubblica popolare di Kampuchea. La caduta del regime di Pol Pot, seguita da una guerra civile durata fino alla fine degli anni ’90 ha portato il Paese alla povertà estrema. Quarant’anni dopo, il Paese che una volta era soprannominato “il Paese del sorriso”, non ha ancora guarito le sue ferite, il dolore e i ricordi si trasmettono da una generazione all’altra. Ma da poco, il Regno di Angkor, nonostante lo strano mix al potere costituito dal figlio del non sempre limpido Norodom Sihanouk e dal Khmer rosso pentito Hun Sen, sembra crescere non solo economicamente, ma anche demograficamente dando una fievole speranza ala nuova generazione che ha il diritto di rimettere in piedi uno Stato dalla Storia ricchissima, come testimoniano le rovine che disseminano il Paese.
Tra la folla venuta a raccogliersi davanti ai “Killing Fields” si trovavano molti sopravvissuti alla follia omicida dei Khmer Rossi, molti dei quali avevano vissuto l’evacuazione forzata di Phnom Penh quel famoso 17 Aprile del 1975. Quarant’anni dalla caduta, senza opporre alcuna resistenza, della capitale, dopo 5 anni di guerra civile e di bombardamenti americani sulla zona frontaliera della Cambogia,”danno correlato” nel quadro della guerra del Vietnam. Ricordiamo due milioni di persone furono evacuate “d’urgenza”, molte morirono di fatica sulle strade. Oggi qualche ex dirigente Khmer è stato giudicato dal Tribunale speciale, ad eccezione di Pol Pot, ma solo perché morto prima che arrivasse il giorno del giudizio “terreno”. Un ex dirigente Khmer è stato giudicato colpevole alla fine di Marzo dal Tribunale speciale di Phnom Penh, patrocinato dall’ONU e incaricato di giudicare i crimini dell’epoca. Nuon Chea, ideologo del Regime ultra-maoista, 88 anni, e il Capo dello Stato dell’ex Kampuchea Democratica, Khieu Samphan, 83 anni, sono stati condannati lo scorso Agosto al carcere a vita per crimini contro l’umanità, soprattutto per l’evacuazione forzata di Phnom Pehn.
Ma la strada da percorrere è ancora lunga. La Cambogia ha discretamente commemorato il 17 Aprile la presa di Phnom Penh e l’inizio del terrore sul quale l’opposizione chiede che venga fatta “tutta la verità”. “Dobbiamo chiedere giustizia per le vittime”, ha affermato con forza il capo dell’opposizione, Sam Rainsy, davanti a diverse centinaia di cambogiani venuti rendere omaggio ai loro morti. “Se non abbiamo fatto nulla di male, non dobbiamo aver paura che la verità venga alla luce”, ha aggiunto durante una cerimonia commemorativa organizzata dal suo Partito. Sam Rainsy si è poi raccolto davanti ai crani conservati al memoriale di Choeung Ek, meglio conosciuto come “Killing Fileds”, fossa comune posta alla periferia di Phnom Penh. Nessun rappresentante del Governo era però presente e nessuna commemorazione ufficiale è stata organizzata. Il Primo Ministro stesso, Hun Sen, ricordiamo ex Khmer rosso, critica la cultura del ricordo del dramma, in nome dell’unità nazionale, e si oppone apertamente a qualsiasi nuovo processo. Ma è doveroso fare un lavoro di memoria e di educazione alla giustizia necessari per affrontare il proprio passato e costruire un futuro alleviato dal dolore.
di Jacqueline Rastrelli
23 aprile 2015