Roma e gli acquedotti

L’acqua e il suo utilizzo presso i romani rappresentano uno degli aspetti di tale civiltà che ben si prestano ad illustrare non solo le competenze tecniche e ingegneristiche dei Romani, ma anche tanta parte dei loro usi e costumi.
E certamente fra le rovine romane più diffuse e meglio conosciute, hanno un posto di straordinario rilievo gli acquedotti, le strutture preposte all’adduzione e distribuzione dell’acqua presso gli antichi.
Le imponenti strutture degli acquedotti rappresentano, ancora oggi, una straordinaria testimonianza delle avanzate tecniche ingegneristiche e dell’altissimo livello di civilizzazione che il mondo romano esportò in tutto l’Impero.
“Firmitas, utilitas, venustas”, ovvero solidità, utilità e bellezza, sono secondo Vitruvio i principi costruttivi alla base dell’edificazione degli acquedotti.
La maggior parte delle informazioni in nostro possesso provengono dall’osservazione degli straordinari ruderi ancora visibili, non solo nella Campagna Romana, ma in molte delle terre appartenute alle Province dell’Impero Romano, e dalle copiose testimonianze epigrafiche e letterarie. Sarà bene ricordare la più importante fra le fonti scritte giunte fino a noi: il trattato De aquae ductu urbis Romae scritto da Frontino, curator aquarum, ovvero sovrintendente alle acque, nel 97 d.C. Questo testo ci ha permesso non solo di scoprire le tecniche di costruzione, gli espedienti ingegneristici e il funzionamento delle colossali opere architettoniche, ma anche e soprattutto il complesso sistema amministrativo e manutentivo che regolava il funzionamento degli acquedotti.
Così attraverso questa lettura si può fare un piccolo viaggio nella storia architettonica degli acquedotti e nel percorso costruttivo che vi è dietro.
L’invenzione romana dell’acquedotto risale al IV secolo a.C. ed è dovuta alla ricerca di una soluzione per sopperire alla necessità d’acqua potabile per una città che si stava espandendo e che necessitava di sempre maggiori e migliori servizi. Prima di questa fase il rifornimento urbano di acqua era garantito attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali presenti sul territorio di Roma. In particolare ricordiamo che Roma sorse in un punto ove era abbondante la presenza di acqua: oltre al fiume erano presenti diverse zone palustri e alcune sorgenti.
Per le fasi più antiche l’autonomia idrica era inoltre garantita attraverso la realizzazione di pozzi privati e la costruzione di abitazioni provviste di impluvium, ovvero di coperture atte al convoglio dell’acqua piovana presso vasche per l’utilizzo domestico.
Sarà solo dopo la metà del IV secolo dunque che Roma si doterà di un sistema atto a garantire un continuo rifornimento di acqua alla città.
Il più antico acquedotto, l’Aqua Appia, fu costruito durante le guerre contro i Sanniti. Sia per impedire eventuali operazioni di sabotaggio sia a causa delle ancora scarse competenze tecniche, tale acquedotto aveva un percorso completamente sotterraneo. Quando in seguito ciò non fu più necessario, si preferì ricorrere ingegnosamente alle caratteristiche arcate per superare dislivelli di valli e fossi, anziché ricorrere a lunghi e tortuosi percorsi che seguissero l’andamento del terreno. Gli ingegneri romani, infatti preferivano nella maggior parte dei casi non fare ricorso alle condotte forzate, nelle quali si producevano pressioni così forti da richiedere l’impiego di materiali costosi e poco idonei per il sistema dei sifoni. E così il piombo, ampiamente adoperato per le tubazioni cittadine, non veniva usato per condutture lunghe, continue e di notevole diametro, cui non si confaceva. Materiali costruttivi come il tufo, il peperino, il laterizio offrivano invece una soluzione sicura ed economica. Le arcate consentivano di sostenere il canale mantenendolo ad un’altezza prestabilita, in modo da ottenere una pendenza costante che consentisse il deflusso a pelo libero con una velocità non pericolosa per la stabilità delle strutture e senza perdite di carico. Tuttavia, anche un’arcata ben progettata e costruita poteva, per una variazione delle condizioni di base (causata da terremoti, cedimenti del terreno e così via), non essere più perfettamente in equilibrio. Ad impedire il crollo si interveniva allora con restauri e rafforzamenti che si possono tuttora osservare nei dintorni di Roma. Queste arcate, che attraversavano la desolata campagna romana suggerirono a Goethe un’immagine altamente evocativa: «L’acqua giungeva a Roma su una successione di archi di trionfo».
Ma come funzionava un acquedotto romano?che caratteristiche avevano questi edifici?
Nella progettazione di un acquedotto il primo fattore da considerare era la scelta delle sorgenti adatte, che dovevano essere visibilmente pure e limpide, inaccessibili all’inquinamento e prive di muschio e canne.
Le vene d’acqua venivano raccolte in un bacino in muratura impermeabilizzato, dal quale defluivano in una piscina limaria (vasca di decantazione). Una volta depurata da viscosità e residui, l’acqua veniva convogliata nello speco che era quasi sempre in muratura. Nei tratti sotterranei si scavavano pozzi verticali per l’aerazione e per lasciare la possibilità ai manutentori di operare il continuo lavoro di pulizia che i canali richiedevano. Le pareti del canale erano in pietra, tufo, peperino o laterizio, rivestite all’interno con uno strato di opus signinum, materiale edile impermeabilizzante. Lo speco poteva presentare una copertura piana, a cappuccina (triangolare) o semipoliedrica, forme tutte presenti anche nello stesso canale.
Lungo il percorso dell’acquedotto venivano creati dei bacini di raccolta, destinati a distribuire l’acqua alle varie utenze e denominati castella aquae: si trattava di costruzioni a camera dalle quali si dipartivano i vari tubi per evitare di collegare gli stessi direttamente ai canali, le cui pareti sarebbero risultate in questo modo indebolite. Le condutture di distribuzione che derivavano da un determinato castellum pubblico potevano a loro volta alimentare castelli minori, dai quali uscivano le tubature per le varie utenze.
La ripartizione dell’acqua secondo Frontino era divisa in tre gruppi principali: per l’imperatore, per i privati e per i servizi pubblici. A tale scopo venivano realizzate delle strutture che consentivano il passaggio dell’acqua dallo speco, dove scorreva a pelo libero, fino nei tubi, dove aveva un regime a pressione. Sempre Frontino ci dice che a Roma esistevano circa 247 castelli idraulici. Le tipologie più diffuse erano essenzialmente due: o un semplice ripartitore (come ad esempio quello rinvenuto a Porta Maggiore che raccordava e distribuiva le acque della Claudia e dell’Anio Novus), o una fontana monumentale o mostra d’acqua, un munus, cioè un’opera pubblica donata alla popolazione dallo Stato, come i Trofei di Mario in piazza Vittorio Emanuele sull’Esquilino, unica sopravvissuta fra le 39 elencate da Frontino.
Le condutture di distribuzione alle utenze erano costituite da vari materiali come tufo, terracotta e principalmente piombo. I tubi di piombo, che si chiamavano fistulae, erano ottenuti piegando intorno ad un’anima di legno, delle lamine di piombo che poi venivano saldate lungo i bordi. Tali tubazioni rappresentano importantissimi documenti storici per la presenza sulla loro superficie di iscrizioni, con caratteri a rilievo, recanti l’indicazione della conduttura di appartenenza. Le tubazioni per la presa d’acqua erano applicate al castello di distribuzione mediante un calice, anche questo in bronzo. Elementi fondamentali del sistema di distribuzione, importante testimonianza della perizia tecnica sviluppata dai romani in campo idraulico, erano le valvole in bronzo, prodotte con la tecnica a cera perduta. Queste saracinesche erano tecnicamente simili ai nostri rubinetti, composte da un corpo a due estremità tronche saldato ai tubi, da un maschio per l’apertura e la chiusura del foro, da un tappo per la tenuta alla base.
Per il sollevamento dell’acqua esistevano pompe a valvole e pistoni, di varie dimensioni e forme.
L’imponenza degli acquedotti suscitò l’ammirazione, non solo degli autori antichi (Plinio il Vecchio, Frontino, Strabone, Dionigi di Alicarnasso, Rutilio Namaziano, Cassiodoro), ma anche dei letterati e degli artisti di età moderna che compirono in Italia il Gran Tour, rituale pellegrinaggio alla riscoperta dei monumenti del passato e spunto ideale per malinconiche e struggenti meditazioni sulla vita e sulla morte. Shelley, ad esempio, fu tra i poeti romantici d’oltralpe uno di quelli che rimase più suggestionato dalle rovine degli acquedotti che si ergevano nella malinconica solitudine della Campagna Romana, “simili a montagne infrante”. Anche Stendhal appare profondamente affascinato dalla sconfinata solitudine della Campagna Romana “dominata da avanzi di acquedotto o da qualche tomba in rovina”. I resti degli acquedotti e in particolare le ritmiche arcate dell’Aqua Claudia – che si ergono più in alto delle altre – ispirarono anche celebri incisori, come Piranesi e Rossini, pittori italiani e stranieri, come Caffi e Strutt, e catturarono l’attenzione di famosi fotografi, quali Macpherson, Anderson, Caneva e Parker. Inoltre suscitarono l’interesse di topografi e archeologi, come il Gell, il Nibby, la Van Deman, l’Ashby, il Tomassetti e il Lanciani, i quali si dedicarono in modo particolare allo studio e alla descrizione dell’Ager Romanus, che nell’antichità “doveva apparire come un grande parco punteggiato di villaggi, fattorie, ville, case campestri, residenze padronali, templi, fontane e mausolei”, come afferma il Lanciani nella sua opera “Wanderings in the Roman Campagna”.
“L’acqua giungeva a Roma su una successione di archi di trionfo”
(J. W. von Goethe)
Uno dei simboli che maggiormente testimoniano il passaggio dei Romani sul territorio romano ma anche e soprattutto presso le terre conquistate, sono certamente gli imponenti ruderi degli acquedotti. Queste straordinarie testimonianze oltre a rappresentare fondamentali elementi per la conoscenza delle competenze ingegneristiche raggiunte dai Romani, sono
L’acqua e il suo utilizzo presso i romani rappresentano uno degli aspetti di tale civiltà che ben si prestano ad illustrare non solo le competenze tecniche e ingegneristiche dei Romani, ma anche tanta parte dei loro usi e costumi.
Veleria Vaticano
13 aprile 2012