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Dovremmo smetterla con le “trailer analysis”

Un estratto del trailer di Elden Ring: Shadow of the Erdtree

Se vi è una certezza, nel discorso videoludico, è che alla pubblicazione di un trailer d’annuncio segue sempre una copiosa rassegna di commenti ad un tempo eruditi e concitati su quanto è stato mostrato. Prassi del dibattito sui videogiochi – di chi lo sostiene dalle fondamenta: content creator e giornalisti della stampa specializzata si lanciano con sicumera in disamine lungamente argomentate, vorticose elucubrazioni su questo o quel dettaglio, ipotesi circa la fattura del “prodotto finale” (espressione tanto frequente quanto infelice), quando del prodotto finale, naturalmente, non vi è neppure l’ombra.

Lo si vede soprattutto in periodi come questo, dove lo spazio mediatico – quello cioè della nostra attenzione – è preso d’assalto dai reparti di marketing dei publisher, chi con il trailer di un gioco particolarmente in vista come il DLC di Elden Ring, Shadow of the Erdtree; chi con la solita carrellata di titoli che si susseguono freneticamente in uno show case da 20 minuti o poco più, tra i cui più recenti esempi possiamo citare il Pokémon Presents e l’Xbox Partner Preview.

Nelle sezioni commenti si leggono cose come «evento sottotono», oppure «bel ritmo, ma niente grandi nomi», e ancora «finalmente un gioco interessante». In generale, pare vi sia una predilezione per gli eventi con un elevato numero di annunci – meglio se fra questi compare un titolo molto atteso – e che soprattutto non si perdono “in chiacchiere” (il monopolio di queste, a quanto pare, deve rimanere nostro), quali potrebbero essere retroscena o interviste degli sviluppatori. 

Nell’ultimo evento di Microsoft sono stati fatti ben 14 annunci in un video da 30 minuti scarsi / fonte immagine: windowsblogitalia

Il modello comunicativo maggiormente apprezzato dai videogiocatori è indubbiamente l’esposizione visiva del sovrabbondante – ennesima celebrazione della cultura dell’accumulo: uno shock di stimoli paragonabile a quello che Walter Benjamin ravvisava nel linguaggio cinematografico quando – sia pure con un pregiudizio che a noi posteri pare evidente – dichiarava: «il flusso associativo di colui che osserva queste immagini viene subito interrotto dal loro mutare. Su ciò si basa l’effetto di shock del film» (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica)

E shock sia, allora. Del resto, la funzione del trailer, la sua ragion d’essere, se così si può dire, è proprio quella di suscitare interesse in chi guarda, di invogliare all’acquisto, di far fantasticare un po’, e non basta certo rassegnarsi al più disilluso cinismo per essere anticonformisti e sfuggire allo strapotere del marketing. Avere uno sguardo critico sul videogioco significa prima di tutto accettare che esiste anche questa componente, e che in una certa misura riguarda pure la sua realizzazione, non fosse altro che sulla campagna pre-lancio ci si gioca già una bella fetta delle vendite. 

C’è più dignità, e forse persino più anticonformismo, nel lasciarsi illudere consapevolmente, tenendo bene a mente i confini dell’illusione, che a sbattere i piedi per terra lamentando di essere stati ingannati. Il problema non sono infatti i trailer: anche noi ne parliamo, per lo più nelle puntate del nostro podcast A ruota libera, cogliendo l’occasione per raccontare delle nostre suggestioni, delle nostre speranze di vedere qualcosa di nuovo. Perché lasciarsi stuzzicare da quel che si è visto, partecipare dell’entusiasmo collettivo che eventualmente ne deriva fa parte di un gioco, e come tale – dovremmo saperlo bene, noi videogiocatori – lo si può prender sul serio solamente dopo averne accettato la natura di cosa poco seria. 

In questo episodio del nostro podcast, ad esempio, non manca una prima fase di commento all’evento di Xbox.

Invece, assistiamo a ben altro spettacolo con il levarsi, dalle cattedre virtuali intorno cui si riuniscono le community online, di convintissimi slanci interpretativi, e la conseguente, totale messa al bando di quel confine tra ciò che c’è e ciò che non c’è ancora. Non potrebbe risultare più pericolosamente profetico, a questo punto, quanto già a suo tempo denunciato da Calvino in Mondo scritto e mondo non scritto circa la perdita di senso della comunicabilità dell’esperienza:

Questo mondo che io vedo […] si presenta ai miei occhi – almeno in gran parte – già conquistato, colonizzato dalle parole, un mondo che porta su di sé una pesante crosta di discorsi. I fatti della nostra vita sono già classificati, giudicati, commentati, prima ancora che accadano. Viviamo in un mondo dove tutto è già letto prima ancora di cominciare a esistere.

La scritta “trailer analysis” campeggia fiammante nella thumbnail del video appena pubblicato su YouTube, a meno di ventiquattr’ore dall’evento: il consueto sproloquio infarcito di commenti pretestuosi, di asserzioni prive di fondamento sul tipo di esperienza che quel gioco potrebbe offrire a partire “dalle sue premesse”. Ma possiamo davvero sperare di fare appello a qualcosa che non siano i nostri stessi pregiudizi quando, illusi di giudicare il gioco presentato, non facciamo altro che giudicare ciò che ci aspettiamo da esso, o meglio, dalla sua presentazione?

Cos’è questo se non il riflesso delle nostre abitudini di consumo, delle solite rassicuranti proiezioni ideologiche su categorie commerciali ormai assuefacenti? È abbastanza evidente che un simile approccio conduca allo slittamento squisitamente kantiano dall’oggetto al soggetto giudicante, cioè alla sua stessa capacità di giudizio: ancora una volta stiamo giudicando noi stessi – e curiosamente senza mai metterci in discussione.

L’acme della mania per l’analisi del nulla: premiare il nulla.

Forse il caso di Starfield è tra i più rappresentativi. La querellequantity over quality” s’è riversata online anticipando l’uscita del gioco di almeno un anno, momento dal quale non a caso è praticamente scomparsa. Molti potrebbero ritenere complice di questo atteggiamento l’insistenza che ha avuto Bethesda nel pubblicizzare Starfield come la nuova grande opera fantascientifica che tutti stavamo aspettando, ottenendo peraltro risultati a volte esilaranti come la gaffe-meme sulla famosa data “scolpita nella pietra”, ma sarebbe l’ennesimo tentativo di autolegittimazione.

Discutere ossessivamente di ciò che i reparti di marketing vanno propagandando non è il modo più efficace di contrastarne l’assillo, ma il segno piuttosto eloquente di una generalizzata sottomissione al diktat delle piattaforme e alla polarizzazione generata dalla pressante richiesta di opinioni su qualsiasi cosa: nel dominio degli algoritmi il silenzio rimane la protesta più autentica.

Se è vero che è l’interazione a fare il videogioco, che alla base della specificità di questo medium vi è la caratteristica di potervi interagire, di essere agente attivo in un modo costruito apposta per essere modificato, non può che rivelarsi miope, anzi mortificante l’atteggiamento di chi si ostina a dar giudizi su dichiarazioni, immagini e filmati intelligentemente predisposti per dare solo la sfrontata illusione di qualcosa che ancora non esiste. Forse basterebbe riconoscere questo per iniziare a sfrondare quella pesante crosta di discorsi che si affaccia sul nostro mondo in preda alla logorrea di un delirio individualistico e profondamente narcisista.

L’unica cosa che possa aver senso dire di un trailer, se proprio lo si vuole giudicare, è in che misura ci ha fatto maturare interesse per il videogioco presentato, quanto ci ha stregato, quanto ce ne ha fatto venire voglia. Sognare un po’ e parlare senza pretese delle proprie suggestioni non è certo meno edificante del sapersi giostrare come un funambolo tra imponenti e pur sempre traballanti castelli in aria, anche quando certe acrobazie vengono eseguite con la prontezza argomentativa di chi ormai ha fatto del parlare a vuoto – e cioè sopra le cose anziché delle cose – il proprio mestiere.

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