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Helmut Duckadam. L’incarnazione del blocco comunista, il muro rosso, la saracinesca romena. 

Ci sono dei libri che si vorrebbe non finissero mai. Uno di questi è:“ Il portiere di Ceausescu”. Guy Chiappaventi giornalista e inviato del tg LA7 dona la voce ad Helmut Duckadam narrando in prima persona la sua storia, quella di un antieroe, in tutta la sua forza non perdendo mai il gusto per la dolcezza. 

La notte del 7 maggio 1986, nello stadio di Siviglia, Helmut Duckadam, allora ventisettenne, riuscì nell’impresa di parare tutti e quattro i rigori dei giocatori catalani consentendo alla Steaua Bucarest di laurearsi campione d’Europa, prima volta per una squadra dell’Est. Duckadam, fino ad allora sconosciuto, diventerà l’eroe di un popolo. 

Ma questo oltre ad essere il racconto di una vittoria impossibile, è anche la storia di una Romania soffocata dal regime di Ceaușescu, e di un’Europa dell’Est intrappolata nell’incubo nucleare dovuto all’esplosione del reattore di Chernobyl. È la storia di un uomo che non ha paura di cambiare dopo che le condizioni di salute lo hanno dovuto allontanare dal calcio. Passa da eroe nazionale a controllore di dogana, poliziotto, operaio, tenta l’arida Arizona, ma è a Bucarest che vuole tornare. 

“[…] così parto e divorzio lasciando l’America, ho quasi quarantacinque anni e devo reinventarmi una nuova vita. Non sempre tornare indietro è una sconfitta. Al contrario può essere segno di ravvedimento, segno di umiltà. Uno prende una strada, la percorre si mette in gioco. Poi capisce che è quella sbagliata e torna sui suoi passi. Non c’è niente di male: il tempo cambia molte cose nella vita, il senso, le amicizie, le opinioni. Io ho cambiato idea sul comunismo e il capitalismo, sulla famiglia e persino sul calcio. Ma sul calcio non sono tanto io che ho cambiato idea, è il calcio che ha cambiato forma”. 

Arrivano in Spagna nella primavera del 1986 un gruppo di tzigani, di “morti di fame” come dirà Duckadam. Ma hanno un vantaggio rispetto al Barcellona: loro sono una squadra, e sono affamati, mentre gli altri hanno problemi di spogliatoio e tradimenti che aleggiano nell’aria. Sono viziati e giocano in casa. 

È la storia di una nazionale sotto regime, che si allena al buio, con la luce a intermittenza durante la giornata, il frigorifero vuoto e i vestiti da dover lavare con il sale per le radiazioni del disastro di Chernobyl. Vestiti impossibile da buttare perché nessuno di loro era in possesso di un cambio, Helmut Duckadam aveva solo un paio di guanti mandati dall’Italia, guai a buttarli! È la storia di un gruppo di ragazzi con il taglio di capelli beat, la pelle color Sioux e l’incoscienza nei sorrisi di chi non ha neppure indossato un paio di jeans americani. 

Il libro è carico di allegorie, tracce di poesia, racconti sulla durezza del regime comunista, e di come dopo la caduta del muro l’alternativa americana/europea abbia lasciato una risposta insoddisfacente a chi ha sofferto per tanti anni freddo e violenze di ogni genere. 

Se il Comunismo li aveva fatti morire di fame. Il Capitalismo li fece morire davvero. 

Queste ottanta pagine sono un gioiello, scritte in modo limpido ed emozionante.  Ritraggono un uomo fisicamente e moralmente enorme in possesso di un anima candida, che né la fame, la fine del successo e la malattia sono riusciti a fare smettere di luccicare. Fedele a se stesso ai suoi amori, ai suoi cambiamenti e ai suoi dolori, la vita di Duckadam non verrà scordata.

Resta l’ulteriore  prova che dai diamanti non nasce veramente niente, al contrario di quella squadra del’86 che arrivò in Spagna come un fiore sconosciuto nato in una terra intossicata dalle radiazioni e oppressa: antropomorfo, esotico, diverso, minaccioso e assolutamente vincente. 

Oltre che ad essere una storia sportiva è una storia di speranza e cambiamento. Avesse vissuto in un’altra epoca sarebbe stato ricco, avrebbe giocato all’estero, invece resta un poster: il portiere con i baffoni, la maglia verde e quell’entusiasmo infantile liberato su quel prato dello stadio Ramón Sánchez-Pizjuán

È un inevitabile privilegio cambiare, crescere, seguirsi, vivere nel modo nella maniera più incline alla propria natura. Tutto questo lo fa Duckadam quando scappa dall’America per tornare alla sua Romania. Un paese in cui non si è riso per decenni. Gli hamburger, il sole dell’Arizona e un matrimonio che tirava avanti non avrebbero potuto alleviare la ferita di aver dovuto lasciare il calcio. Di aver perduto tutto per la malattia. 

Cambiare pelle come i serpenti, eleganti e nuovi

È la storia di una squadra di sconosciuti che strappò il titolo più importante del calcio europeo (all’epoca la Coppa dei campioni), a una superpotenza: la Spagna. Una notte di felicità per un popolo che viveva con le luci spente senza riscaldamento. Quando la Steaua rientrò in Romania all’aeroporto 15.000 persone accolsero i giocatori, erano tempi in cui l’aggregazione di così tante persone era vietata, avrebbero potuto anticipare di tre anni la rivolta per quanti fossero. Sicuramente un fatto insolito per la Romania comunista dove le manifestazioni spontanee di piazza erano assolutamente vietate e penalizzate con la morte ma il regime non volle reagire. 

L’accaduto era un miracolo. Quattro rigori, quattro parate. Anni di allenamenti in condizioni disumane. E la vittoria davanti una delle squadre più lussuose. Davanti a uno dei tanti paesi occidentali che ha voltato le spalle alla sofferenza disumana che ha subito la Romania. Ma tutti questi fatti li metterà bene in ordine lo scrittore Guy Chiappaventi. Lasciandoci un piccolo cameo da cucire nella grande collezione di quelle vicende umane poco conosciute e straordinarie. 

La storia di Helmut Duckadam va letta e voluta bene, sono ottanta pagine di una narrativa splendida piena di dignità e forza. 

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