Il ruolo del portiere è simbolicamente unico: solitario in uno sport di squadra, distinto dai compagni per casacca e colori, apparentemente immobile in una prospettiva di mobilità assoluta del pallone. Custode del sacrario della porta, legno architettonico in cui è incastonata la santa rete di ogni partita di calcio, l’errore del portiere non conosce ripensamento.
Come nella più tradizionale ottica protestante, l’estremo difensore non può sperare nella redenzione postuma: l’errore è pubblico e sottoposto al comune ludibrio. Ennesimo paradosso del custode dei pali: agile per necessità senza conoscere la leggerezza concessa ad altri ruoli.
Con il suo volto concentrato, frutto dell’ibridazione famigliare belgo-serva, Mile Svilar incarna nella sua atarassia serafica gli estremi inconciliabili del portiere: scattante dal suo metro e novanta, freddo davanti alle sfumature emozionali del pericolo, silenzioso nel boato che precede la parata o la rete.
Quello stesso silenzio sospeso che ha bloccato un grido sordo in gola all’Olimpico nel finale di gara di Roma-Juventus. Un pareggio sull’1-1 che sembra ormai deciso dai dadi del calcio rischia di essere incrinato all’88’ da Moise Kean. Solo un gesto al di fuori delle logiche del quotidiano potrebbe impedire al percorso della storia calcistica della partita di uscire dai suoi binari decisi nell’equilibrio di 90 minuti.
Un gesto che solo il portiere, unico nella sua solitudine, può rendere reale fermando il tempo con l’insostenibile pesantezza della parata. Ecco allora manifestarsi l’intervento di Svilar, l’ennesimo decisivo della stagione, che preclude la gioia del vantaggio bianconero e rinnova in un battito di ciglia il ruolo letteralmente assoluto del
Svilar, l’insostenibile pesantezza del portiere
