Dopo 15 anni di negoziati per dare un inquadramento giuridico alla protezione della biodiversità in alto mare, gli Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ha adottato, due anni fa, il trattato “Biodiversity Beyond National Jurisdiction” (BBNJ).
Con la raccolta di 110 firme, comprese quelle dei Stati membri dell’Unione Europea, la Cina e gli Stati del Pacifico, questo accordo fornisce nuovi strumenti giuridici che hanno come fine quello di far fronte alle crisi del pianeta come il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità e l’inquinamento.
Di fronte a queste problematiche, una grande mobilitazione internazionale lavora su questo trattato, in vista della terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’oceano, che si terrà a Nizza dal 9 al 13 Giugno 2025.
Ma facciamo un passo indietro per capire in quali circostanze sia nato il trattato sulla biodiversità e quali trasformazioni questo potrebbe portare nella gestione e nello sfruttamento dell’alto mare, perché in un contesto geopolitico contraddistinto dalla messa in causa di diversi trattati internazionali, le sfide alle quali va incontro questo progetto non sono da sottovalutare.
Il Trattato
Il trattato sulla biodiversità in alto mare è uno strumento giuridico internazionale adottato nel 2023 sotto l’egida della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (CNUDM). Fino ad allora, le acque internazionali – ossia il 64% dell’oceano e quasi la metà della superficie del globo – non rientravano in alcun quadro giuridicamente vincolante riguardo la protezione della biodiversità.
Contrariamente alle acque sotto giurisdizione nazionale, che si estendono fino a 200 miglia marine dalla costa e dove gli Stati costieri regolamentano le attività marittime, l’alto mare era uno spazio libero da qualsiasi vincolo, ampiamente sfruttato ma poco protetto.
È per colmare questo vuoto giuridico che nel Marzo del 2023 è stato firmato il trattato noto come BBNJ (Biodiversity Beyond National Jurisdiction). Il trattato è stato definito “storico” per diversi motivi.
Innanzitutto si tratta del primo quadro normativo che stabilisce regole vincolanti laddove fino a poco tempo fa sovrastava la libertà degli Stati.
Colmando le lacune normative della CNUDM sulla gestione di parte delle risorse presenti in alto mare, rappresenta una tappa inedita verso una gestione globale dell’oceano.
Inoltre, introduce dei meccanismi innovatori come la possibilità di creare, in alto mare, delle aree marine protette.
Offre quindi degli strumenti concreti per proteggere ecosistemi vulnerabili di fronte a crescenti pressioni.
È stato anche considerato una vittoria del multilateralismo: la sua adozione dopo quasi venti anni di negoziati mostra un raro consenso mondiale in un contesto geopolitico teso, e mette in luce il riconoscimento collettivo dell’emergenza ecologica e del ruolo vitale dell’oceano.
Gestione e sfruttamento dell’alto mare, sarà veramente possibile un’azione comune?
Se il trattato ha messo così tanto tempo per nascere, è soprattutto perché i negoziati sono stati contraddistinti da profonde divisioni tra Pesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo.
Uno degli ostacoli maggiori, per esempio, riguardava lo sfruttamento delle risorse genetiche marine, una vera sfida economica strategica per via del loro potenziale in settori come quello farmaceutico o cosmetico.
Alcuni Stati, dotati di mezzi e industrie necessarie al loro sfruttamento, hanno in effetti difeso un approccio a favore di un accesso senza restrizioni a queste risorse.
Al contrario, numerosi Paesi in via di sviluppo hanno insistito per la creazione di un meccanismo di divisione equa dei vantaggi (monetari e non), argomentando che l’assenza di regole andava in modo sproporzionato a favore delle Nazioni dotate di tecnologie avanzate.
Stabilendo un quadro normativo vincolante a livello globale, il trattato BBNJ colma la mancanza di coordinamento e di coerenza nella governance in alto mare attraverso quattro fondamentali pilastri.
Il primo è la creazione di aree marine protette in acque internazionali, cosa che finora era stata quasi impossibile al di fuori degli accordi regionali tra Stati volontari.
Questo dovrebbe permettere di raggiungere l’obbiettivo 30×30 che mira a proteggere 30% dell’oceano entro il 2030.
Inoltre, per prevenire rischi ecologici , i progetti di sfruttamento dovranno essere sottoposti a studi che permettano di valutarne l’impatto sugli ecosistemi.
Il trattato ha poi fatto nascere un meccanismo di condivisione dei benefici legati allo sfruttamento delle risorse genetiche marine, permettendo ai Paesi in via di sviluppo di accedere ai benefici scientifici, tecnologici ed economici che ne derivano.
Infine, mette l’accento sul potenziamento delle abilità dei Paesi in via di sviluppo per permettere loro di partecipare alla ricerca e alla gestione delle risorse marine.
Per assicurare il rispetto degli impegni, il trattato prevede diversi meccanismi di governance destinati a garantire la sua effettiva applicazione.
Una Conferenza delle Parti (COP) verrà incaricata di supervisionare l’applicazione del trattato, di valutare i progressi fatti e adottare eventuali raccomandazioni o rettifiche necessarie per migliorare la sua efficienza.
Costituirà il principale organo di controllo e avrà un ruolo chiave nel coordinamento tra Stati firmatari.
Ci sarà anche un comitato scientifico che dovrà valutare i dati relativi allo stato della biodiversità in alto mare e all’impatto delle attività umane, dati che serviranno come base per le decisioni prese dal COP, soprattutto per quanto riguarda la designazione delle aree marine protette.
Dei meccanismi di regolamentazione delle controversie, ispirati a quelli della CNUDM, permetteranno di risolvere eventuali conflitti tra Stati riguardo l’interpretazione o l’applicazione del trattato.
Se il trattato trasforma la governance delle acque internazionali, permettendo un approccio più coordinato e una regolamentazione più efficace di alcune attività umane, la sua applicazione dipenderà in modo assoluto dalla volontà degli Stati far fronte agli impegni presi e ricondurli nella legislazione nazionale.
Sfide principali per la sua entrata in vigore
L’accordo è stato trovato il 4 marzo del 2023 e adottato formalmente il 20 giugno dello stesso anno alle Nazioni Unite, ma affinché il testo diventi giuridicamente vincolante ed entri in vigore, deve essere ratificato da almeno 60 Stati.
È un processo che va avanti lentamente, e diversi Stati esitano ancora ad impegnarsi completamente.
Dietro a queste reticenze si nascondono sfide economiche, politiche e strategiche che frenano la loro adesione.
Se è stato firmato da 110 Stati – che hanno mostrato così la loro volontà di ratificarlo -, ad oggi il trattato è stato ratificato da 18 Paesi.
Al di là della ratifica, l’attuazione concreta del trattato pone sfide logistiche e tecniche.
Il testo, per esempio, prevede la creazione di aree marine protette in alto mare, ma per queste si dovrà prevedere una sorta di sorveglianza e dovrà essere garantito il rispetto delle regole che le concernono.
L’alto mare copre quasi la metà della superficie del pianeta: assicurare un controllo efficace in questi vasti spazi necessiterà di mezzi di sorveglianza rafforzata, che andrà a mobilitare tecnologia e cooperazione tra Stati.
La questione dell’attuazione del trattato ci porta anche alla sfida più grande, quella della responsabilità condivisa.
Senza il forte impegno delle parti coinvolte, questo ambizioso progetto potrebbe rimanere pura teoria, per via dell’assenza di mezzi e della volontà politica per applicarlo su larga scala.
A che punto è la ratifica?
La terza Conferenza delle Nazioni Unite sull’oceano (UNOC3), potrebbe avere un ruolo importante nell’accelerazione della ratifica. Questa conferenza, che riunirà Stati, organizzazioni internazionali, ONG e attori economici, mira ad attuare l’obbiettivo di sviluppo sostenibile 14 (OSS14) che riguarda l’ambiente marino.
Potrebbe rafforzare la pressione diplomatica sugli Stati incerti, mobilitare finanziamenti destinati alla conservazione degli oceani e rafforzare la condivisione e la diffusione delle scoperte scientifiche, smuovendo il processo decisionale politico sulle sfide oceaniche, e consolidare le basi di una governance internazionale efficace dell’alto mare.
La ratifica in sé necessita ancora di tempo. Intanto lo sfruttamento rimane una gara aperta ai più forti.