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Game over per il petrolio? Benvenuti nella Matrix Revolution

petrolio

Fonte immagine: g2r

Il rapporto pubblicato da Tactics.

PARTE I: Game Over per il Petrolio?

Negli Stati Uniti il consumo di petrolio è al livello più basso dal 1971, quando la produzione si attestava al 78% del totale del 2019. Un segnale ancora peggiore viene dai future. Scesi sotto lo zero per la prima volta nella storia, i contratti sul greggio hanno seguito l’aumento dei costi di stoccaggio e l’esaurimento dello spazio. Con la domanda di petrolio che affonda di 20 milioni di barili al giorno, l’industria dei combustibili fossili sta affrontando una crisi esistenziale. Quel che più conta, il cambiamento – e l’eccesso di offerta – è strutturale. Il sistema energetico mondiale sta attraversando una fase di transizione. Come dimostra l’esperienza dell’Unione Europea, il decoupling tra emissioni di carbonio, popolazione e crescita economica è possibile. Stiamo assistendo alla decarbonizzazione dell’economia globale?

Combustibili fossili in ritirata?

Nel 2017 più della metà dell’elettricità prodotta nei 28 stati dell’UE proveniva da fonti non fossili (29% da nucleare e 27% da energie rinnovabili). Nella matrice energetica europea il carbone pesava per il 19%, il gas naturale per il 14% e il petrolio greggio per il 10%. Negli ultimi 10 anni la produzione da fonti rinnovabili è aumentata del 71%, sostituendo parzialmente la produzione di fonti di energia basate sui combustibili fossili. Lo sviluppo e la promozione di nuove tecnologie e best practice hanno migliorato significativamente l’efficienza energetica e oggi il consumo di energia dell’UE è inferiore ai livelli del 1990.

Una nuova era per il mercato globale dell’energia

Anche prima del COVID19, la maggior parte degli analisti prevedeva che il picco globale della domanda di petrolio sarebbe stato raggiunto tra il 2030 e il 2035, seguito da una costante riduzione della domanda. Nella stessa direzione puntano anche le proiezioni dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ipotizzando che la domanda di petrolio possa raggiungere un plateau negli anni ’30. Questi dati, specchio del cambiamento in corso hanno influito negativamente sulle decisioni di investimento, sia nel settore petrolifero che del gas e nel settore delle energie rinnovabili. La transizione energetica ha bisogno di soldi. L’Agenzia Internazionale per l’Energia stima che entro il 2050 il sistema energetico globale richiederà investimenti aggiuntivi per 29 trilioni di dollari aggiuntivi rispetto all’ammontare degli investimenti richiesti dalla crescita della domanda di energia a livello globale.

Fino alla crisi del COVID19, si riteneva che la maggior parte di tali investimenti sarebbe stata mobilizzata sui mercati di capitali, in una situazione di alta volatilità e caratterizzata dall’incertezza sulle politiche che devono preparare al futuro dell’industria del petrolio. L’accordo sul clima siglato a Parigi nel 2015 non ha chiarito le cose. Una dichiarazione di principi più che un quadro di regole vincolanti, Parigi non ha fornito né ai mercati né all’industria segnali politici chiari e necessari ad indirizzare gli investimenti, lasciando inevasa la domanda su quale sarà, a lungo termine, il prezzo del carbonio e, soprattutto, quando sarà operativo un meccanismo efficace per attuarlo.

L’elettrificazione è una soluzione economica ed efficace per combattere i cambiamenti climatici

Il piano multimilionario d’interventi per stimolare l’economia per la fase di recupero post COVID19 potrebbe essere un punto di svolta e iniettare nuova linfa vitale nel settore dell’energia, promuovendo l’accelerazione della costruzione dell’infrastruttura necessaria alla transizione energetica. In primo luogo, l’adeguamento delle reti elettriche. Se è vero che senza certezza sulle decisioni politiche rimarrà estremamente difficile per investitori e aziende determinare correttamente il prezzo connesso a rischi e alle opportunità in termini di emissioni di carbonio, tuttavia, tutti gli scenari di decarbonizzazione concordano su un deciso aumento dei tassi di elettrificazione in tutti i settori energivori: industria, edifici e trasporti.

Il Global Energy and Climate Outlook 2019: Electrification for the Low-Carbon Transition The Role of Electrification in Low-Carbon Pathways, with a Global and Regional Focus on Eu and China è un rapporto pubblicato congiuntamente dal Centro Comune di Ricerca della Commissione europea (JRC), il National Center for Climate Change Strategy and International Cooperation (NCSC) e la Energy Foundation China (EFC). Il rapporto presenta un’analisi approfondita sul ruolo dell’elettricità nei percorsi regionali di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra con particolare attenzione all’Unione europea e alla Cina.

Gli scenari presentati in questo studio mostrano possibili percorsi tecnologici ed economici per contenere il riscaldamento globale al di sotto di 2°C entro la fine di questo secolo, identificando ruoli diversi dell’elettricità come vettore energetico fondamentale.

L’obiettivo dei 2°C è tecnicamente possibile a costi relativamente bassi per l’economia globale

Del dicembre del 2019 è invece il Research Report on Global Energy Interconnection (GEI) for addressing Climate Change, prodotto di ricerche congiunte di GEIDCO (Global Energy Interconnection Development and Cooperation Organization) IIASA (International System for Applied System Analysis) e WMO (World Meteorological Organization). Il rapporto analizza in modo completo il sistema energetico e la tecnologia di mitigazione di GEI (Global Energy Interconnection) nei due scenari di Parigi: 2℃ e 1,5 ℃. I risultati sono impressionanti. Entro il 2050, il volume globale di scambi intercontinentali di elettricità sarà pari a 800TWh; il flusso di potenza transregionale raggiungerà i 660GW; l’energia pulita rappresenterà l’86% dell’energia primaria; le emissioni globali cumulative di CO2 saranno mantenute al di sotto di 510 miliardi di tonnellate; e le emissioni di anidride solforosa, ossido nitrico e PM2,5 diminuirà rispettivamente dell’86%, 98% e 93%.

I due rapporti dimostrano che l’obiettivo di 2°C è tecnicamente possibile a costi relativamente bassi per l’economia globale: la riduzione del PIL aggregata a livello globale varierebbe tra lo 0,2% e l’1,0% in tutti gli scenari di elettrificazione nel 2050, rispetto a un riferimento politico attuale. Il range di oscillazione (0,2% -1,0%) evidenzia che interventi decisi per la realizzazione di infrastrutture abilitanti e generali condizioni favorevoli per sostenere una rapida elettrificazione possono svolgere un ruolo significativo nel ridurre il costo macroeconomico della transizione. È importante sottolineare che questi numeri non tengono conto dei costi drammatici del mancato intervento.

Sicurezza climatica ed energetica: le compagnie petrolifere sono pronte per la nuova matrice energetica?

Pur concordando sull’analisi fondamentale, la maggior parte delle grandi industrie energetiche tradizionali, tuttavia, si aspettava che il cambiamento sarebbe stato più lento. Una delle aree critiche, è il settore dei trasporti e in particolare quello su strada, peraltro vitale per le entrate fiscali di molti paesi. In Europa i combustibili fossili rappresentano ancora il 94% (era il 96% nel 2011) della domanda di energia impiegata per i trasporti nell’UE (fonte: Commissione Europea, 2017). La quota delle emissioni di gas a effetto serra dei trasporti rappresenta il 21,7% del totale (SEE 2018), in crescita rispetto al 20% nel 2011. In un recente studio sugli scenari di consumo di carburante per trasporto su strada nell’UE fino al 2035 (Outlook on the EU road fuel consumption through 2035), Aramco prevede che i combustibili fossili continueranno a dominare la domanda di carburante per trasporto su strada fino al 2035, con il diesel a fare la parte del leone, nonostante l’effetto di sostituzione dei veicoli elettrici, la cui penetrazione del mercato fino al consumo di massa è prevista a partire dal 2023. Questo scenario è ritenuto probabile in mancanza dell’adozione delle ulteriori e più stringenti regole, frequentemente annunciate e implementate, che accelererebbero significativamente la tendenza alla sostituzione dei veicoli tradizionali con gli elettrici.

Le decisioni della politica e la voce delle opinioni pubbliche in tutto il mondo minaccia le prospettive dell’industria petrolifera. Un esempio è la crisi della plastica. Molti nell’industria petrolifera si aspettavano che una domanda inferiore nel settore dell’energia primaria e dei trasporti potesse essere sostituita dall’industria petrolchimica e delle materie plastiche. Il recente ripudio della plastica usa e getta, una tendenza che vede l’allineamento delle misure legislative nell’UE e in Cina, avrà probabilmente un impatto negativo sulla crescita della domanda di petrolio in quel settore.

Gli investitori si ritirano

Quel che è certo è che difficilmente la produzione e il prezzo del petrolio riguadagneranno i livelli di fine 2018. Il mondo è impegnato in una profonda trasformazione del modo in cui utilizziamo l’energia, e l’industria petrolifera farebbe bene a prepararsi per il declino sul lungo periodo. In una prospettiva di offerta stabilmente superiore alla domanda globale, la pressione sui prezzi non può che aumentare e rappresenta una sfida strutturale. La strada della lotta ingaggiata per il mantenimento di volumi di vendita in un contesto di calo del fabbisogno e di in un mercato in declino potrebbe non essere l’approccio più intelligente a garantire livelli sostenibili di redditività finanziaria, in particolare negli Stati Uniti, dove l’industria dello shale presenta costi di produzione particolarmente elevati.

“Nel 2019, le cinque maggiori compagnie petrolifere e di gas integrate verticalmente – ExxonMobil, Shell, Chevron, Total e BP – hanno mobilizzato un totale di 88,7 miliardi di dollari in progetti di investimento, una cifra in calo di quasi il 50% dai rispetto ai 165,9 miliardi investiti nel 2013″, si legge in un rapporto del “Institute for Energy Economics and Financial Analysis”. “Le spese in conto capitale, o capex, delle cinque grandi non sono così basse dal 2007.” Anche senza il coronavirus, le major stavano cercando di navigare la transizione energetica. La bancabilità dei progetti petroliferi è in dubbio con gli investitori che addirittura occhieggiano la possibilità di disinvestire dal settore.

Energie rinnovabili – anche una questione di sicurezza energetica e geopolitica

Lo shock dei prezzi causato dal coronavirus da un lato conferma la vulnerabilità di un’economia dipendente dai combustibili fossili e dall’altro aumenta la pressione per assicurare un pivot nell’industria energetica del futuro, costruita su energie rinnovabili, rivoluzione digitale e gas che – insieme – portano a diversi modelli di consumo. In un futuro non così lontano, l’economia mondiale sarà alimentata principalmente da energie rinnovabili: lo impongono insieme problemi di sicurezza energetica, sicurezza climatica, protezione ambientale e preoccupazioni geopolitiche.

PARTE II: Benvenuti nella Matrix Revolution

Il prezzo della CO2 stimola l’innovazione e garantisce gli investimenti

Misure fiscali coordinate a livello globale e chiari segnali di prezzo erano e restano necessari per dissipare le incertezze che ostacolano gli investimenti e rispondere alle preoccupazioni che spingono gli investitori a disinvestire dal petrolio; un sentiment a cui ha dato voce recentemente, tra gli altri, anche il CEO di BlackRock Larry Fink. La soluzione migliore sarebbe una tassa che penalizzi il GWP – Potenziale di Riscaldamento Globale calcolato come indice ponderato del peso di tutti i gas a effetto serra, anziché del solo valore delle emissioni di CO2. In tal modo si terrebbe conto delle crescenti preoccupazioni scientifiche e dei sempre più allarmanti dati sull’impatto del metano sui cambiamenti climatici; un punto recentemente sollevato anche dagli esperti della Commissione europea in conversazioni informali.

Una tassa sul carbonio potrebbe diventare realtà prima del previsto

Se la crisi dell’industria petrolifera accelera a causa del coronavirus e del crollo dei prezzi del greggio, una risposta potrebbe venire paradossalmente dall’introduzione di un meccanismo per il carbon pricing. La tassa sulla CO2, insomma, potrebbe materializzarsi più velocemente di quanto si potesse immaginare fino a poco tempo fa. Proprio le compagnie petrolifere statunitensi sono state particolarmente colpite dalla crisi. Valeria Termini è un’economista italiana ed esperta di energia che ha lavorato a lungo per l’Autorità dell’Energia di Roma. In un articolo recentemente pubblicato ha osservato che solo “giganti come Chevron e Exxon mobil sono riusciti a portare il proprio break even sotto i 30 dollari ma pagano costi altissimi al mercato in termini di capitalizzazione e capacità di investimento”. Nel corso di pochi mesi, “Occidental Petroleum ha visto crollare le sue azioni da 40 a 14 dollari, a fronte di un indebitamento di 40 miliardi di dollari.”  Continua Termini ricordando come vi siano solo una decina, su diverse centinaia, le aziende americane in grado di reggere un prezzo inferiore ai 40 dollari; e altre rischiano di perdere il controllo dell’impresa in favore di banche e finanziatori, a causa del debito molto elevato e dei bassi margini operativi.

Se è vero, conclude l’economista, che il costo di pareggio per la produzione in Russia si attesta introno ai 15 dollari – mentre è ancora più basso in Arabia Saudita – è altrettanto vero che la stabilità economica e sociale in entrambi i paesi richiede un prezzo molto più alto, di circa 80 dollari . Le implicazioni sono chiare.

Il mercato scioglierà il nodo gordiano dei negoziati sul clima?

In queste condizioni, il mercato potrebbe aiutare a sciogliere il nodo gordiano dei negoziati sul clima. Per oltre 20 anni, la mancanza di un allineamento multilaterale sulle politiche energetiche, industriali e commerciali ha portato al fallimento dei meccanismi delle COP. Dopo il breve, illusorio compromesso raggiunto a Parigi, dove il presidente Obama forzò chiaramente la mano del suo paese firmando senza essersi assicurato il sostegno del Senato, la COP25 di Madrid si è chiusa con un roboante fallimento. I nodi del negoziato si sovrappongono alle divergenze politiche tra le economie emergenti e quelle dei paesi sviluppati. Tutto ruota attorno alla questione di chi pagherà il prezzo della riduzione delle emissioni di carbonio. Mentre sempre più voci si levano a chiedere che i piani di ripresa siano “verdi”, tuttavia, alcuni si muovono nella direzione opposta, assumendo provvedimenti a difesa dello status quo incentrato sui fossili. L’amministrazione Trump sta usando il Coronavirus per accelerare la revisione e il rovesciamento della regolamentazione ambientale negli Stati Uniti mentre assume interventi a sostegno delle compagnie petrolifere nazionali minacciate dall’incipiente recessione. Se il playbook e la visione di Trump per il settore energetico siano adatti a mantenere la competitività degli Stati Uniti nel futuro prossimo venturo rimane incerto; e il destino dell’industria del carbone è un segnale allarmante per il Presidente.

Anche carbone è in declino negli Stati Uniti

Fino ad ora, gli impegni dell’amministrazione per rilanciare l’industria carboniera americana e potenziare la cosiddetta tecnologia del carbone pulito sono stati smentiti nei fatti. Ragioni strutturali ed economiche sono alla base di questo fallimento: l’evoluzione delle tecnologie e dei processi in particolare sono fondamentali per capire cosa sta succedendo. Negli ultimi tre anni, la concorrenza di gas naturale disponibile a bassi costi e delle energie rinnovabili ha portato a un’ondata di fallimenti e licenziamenti nell’industria del carbone, mentre la produzione di carbone diminuisce negli stati della rust belt. Le previsioni del governo dell’Energy Information Administration degli Stati Uniti prevedono un calo del 10% della produzione di carbone a livello nazionale anno su anno nel 2019, con ulteriori cali previsti per il prossimo anno. La produzione è diminuita del 27% negli anni passati. Mentre le società elettriche riducono drasticamente il consumo di carbone, una serie di centrali elettriche viene convertita in gas naturale. Solo nel 2019, le utility hanno ritirato 13GW di capacità alimentata a carbone – l’equivalente di circa 25 centrali elettriche – secondo la EIA. Questa è il secondo valore su base annua più alto mai registrata. L’agenzia prevede che altri 17 gigawatt di potenza saranno offline entro il 2025. Le scorte di carbone nelle centrali elettriche statunitensi sono al livello più basso degli ultimi dieci anni. Come nel caso dell’industria automobilistica, le misure conservative possono mettere in pericolo la competitività di interi settori industriali, lasciando spazio alle industrie e competitor stranieri. Esattamente il contrario di ciò che Trump desidera. Il caso del Diesel dimostra che decisioni politiche lungimiranti svolgono un ruolo essenziale nel determinare le sorti di vincitori e vinti nella corsa all’innovazione nel mercato globale.

USA vs Europa: il caso Diesel e il ruolo dell’innovazione 

I legislatori hanno un ruolo nel supportare le tendenze del settore e la crescita sostenibile. Non sorprende che la California, leader sia nelle green-tech che nella ricerca ambientale, abbia recentemente adottato standard molto stringenti sulle emissioni delle automobili, e fissato l’obiettivo di 1,4 milioni di veicoli elettrici e ibridi sulle strade dello stato entro il 2025. Fino ad oggi e dall’avvento dell’era del trasporto a motore, le auto a benzina sono state le regine della strada negli Stati Uniti. Il governo federale contribuito al dominio delle auto a benzina tassando il diesel a un tasso costantemente più elevato della benzina. In Europa è successo il contrario. Qui governi e case automobilistiche hanno sostenuto e promosso la produzione di motori diesel, nel tentativo di ridurre le emissioni di CO2. Il diesel, una volta un mercato di nicchia in Europa, è stato notevolmente incentivato ed è diventato mainstream nel continente. Si è trattato tuttavia di un pesante compromesso: meno emissioni di CO2 contro più inquinamento da biossido di azoto (NO2) e particolati. Nel frattempo, le case automobilistiche giapponesi e americane si sono dedicate alla ricerca nei settori dell’iniezione diretta o delle auto ibride ed elettriche per sperimentare soluzioni praticabili e – in parte – capaci di garantire una mobilità più pulita.

Vittoria di Pirro per la lobby dei produttori di auto a Bruxelles 

È impossibile negare che la vicinanza della politica e dell’industria automobilistica in Germania, così come a Bruxelles, abbia spinto la Commissione a muoversi operando in una prospettiva “a breve termine”. Gli analisti e le autorità di controllo del settore auto erano consapevoli da anni che il compromesso tra la riduzione delle emissioni di CO2 e l’aumento di altre emissioni nocive alla salute umana. Questi aspetto non sono stati portati all’attenzione pubblica né adeguatamente affrontati.  Se un rapido passaggio al diesel era proposto come un modo semplice ed economico per ridurre le emissioni di CO2, Bruxelles ha prontamente adottato la posizione delle lobby automobilistiche senza troppo riflettere. Il diesel non ha mai messo radici negli Stati Uniti mentre le case automobilistiche europee ci hanno investito massicciamente. Eppure, questa è una scelta delle case automobilistiche prima che della politica: ed è il prodotto delle lobby per influenzare le serie di regolamenti e standard che si sono succedute su entrambe le sponde dell’Atlantico. Quando è esploso, lo scandalo del diesel ha significato un colpo da cui l’industria automobilistica europea non si è ancora del tutto ripresa. La conseguenza dello scandalo è la nuova competitività e il rafforzamento della concorrenza di soluzioni ibride ed elettriche, celle a combustibile e idrogeno che erano rimaste fuori dai piani di ricerca e sviluppo delle case europee. I nostri produttori faticheranno non poco per restare competitivi. La lezione da trarre dallo scandalo del diesel, in definitiva, è questa. Le tecnologie pulite capaci di affrontare e risolvere la contraddizione tra protezione dell’ambiente e crescita industriale ad alta qualità, sono driver fondamentali per la competitività delle economie nazionali. Un nuovo rapporto del premio Nobel Joseph Stiglitz, pubblicato il 5 maggio scorso dal Oxford Review of Economic Policy, dimostra che le soluzioni più efficaci per la ripartenza dell’economia nella fase post COVID19 sono quelle che riducono le emissioni di carbonio. Questa dovrebbe essere la direzione: l’accelerazione della transizione energetica e la stipulazione di accordi globali vincolanti per affrontare i cambiamenti climatici.

Parte III: “When the Opportunity Appears, Don’t Pull the Shades” 

Per avere successo nella lotta contro il cambiamento climatico e la devastazione ambientale, bisogna andare oltre alla vuota liturgia delle COP (Conferenza delle Parti). Allo stato attuale, nessuna Conferenza sui cambiamenti climatici può produrre risultati positivi a meno che le economie sviluppate e quelle emergenti non definiscano – di comune accordo – nuovo quadro di relazioni internazionali basato su impegni reciproci e sui principi della “cooperazione competitiva”.

Il cambiamento climatico avanza a un ritmo più veloce delle litanie dei processi di decisione della politica.

Il precedente dell’UE potrebbe fare scuola. Proprio come successo per i paesi membri dell’Unione, la definizione degli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni dovrebbe essere fondata sui principi di equità, solidarietà, efficacia in termini di costi e preservazione dell’integrità degli ambienti naturali. Concretamente, qualsiasi tassa sul Global Warming Power (GWP) e/o imposta sul carbonio dovrebbe essere ponderata e adattata alle condizioni economiche e sociali di ogni singolo paese e idealmente basata su valori compositi che tengano conto di variabili che possono includere intensità di carbonio, emissioni di carbonio pro capite, esistenza e gestione dei carbon-sink naturali (depositi di carbonio, quali ad esempio le foreste). Il principio delle cd. responsabilità comuni ma differenziate (CBDR) dovrebbe diventare la pietra angolare capace di governare efficacemente il sistema. Con i cambiamenti climatici che avanzano molto più rapidamente del processo decisionale della politica, la comunità internazionale dovrebbe adottare percorsi di negoziazione accelerati e chiedere alle maggiori economie mondiali di impegnarsi in obiettivi e traguardi vincolanti e misurabili, integrando la decarbonizzazione e la sostenibilità in tutte le principali politiche settoriali se vuole efficacemente contenere l’avanzata dei cambiamenti climatici. Il prezzo dell’inazione è molto maggiore del costo dell’azione. In questo senso, la scorsa settimana sono arrivati segnali positivi dall’edizione di quest’anno del Dialogo sul clima di Petersberg. È stata una prima volta con format virtuale per lo scambio intergovernativo informale a guida tedesca sulla politica climatica e l’implementazione delle misure d’intervento, che si è svolto il 27-28 marzo di quest’anno. Il tono, e non poteva essere diversamente, l’hanno dato la crisi e la presentazione di piani per un’agenda di “ripresa verde” per l’economia post-COVID. Nel suo discorso, Angela Merkel, seguita dalla sua Ministra dell’Ambiente Schulze, ha chiesto che la risposta alla crisi sia rispettosa dell’ambiente, accelerando la transizione ecologica in atto. La Cancelliera ha al tempo stesso, per la prima volta, confermato esplicitamente il suo sostegno all’ambizioso obiettivo del Green (New) Deal della Commissione von der Leyen.

Di fronte alla minaccia esistenziale del cambiamento climatico i leader delle maggiori economie del pianeta sono chiamati ad assumersi la responsabilità di portare avanti i negoziati, stabilire obiettivi vincolanti e trasformare “la crisi di questa pandemia in un’opportunità per ricostruire le nostre economie in modo diverso e renderle più resilienti, in modo da lasciare un mondo migliore ai nostri figli”, come ha ricordato la Presidente della Commissione europea.

In termini concreti, il 29 aprile i ministri dell’energia dell’UE hanno ribadito la loro intenzione di collocare le energie rinnovabili e il Green Deal al centro del piano di risanamento (recovery) post-COVID, legato alla revisione delle proposte per il bilancio dell’unione (MMF -Multiannual Financial Framework). Un ruolo chiave spetterà alla transizione energetica. Segnali non contraddittori con l’approccio europeo sono giunti dal 13 ° Congresso Nazionale dei Rappresentanti Popolo (NPC) a Pechino, la legislatura del paese, che si è aperto in sessione annuale il 22 maggio.

L’UE disaccoppia il consumo di energia dal PIL

L’Europa ha già fatto molto nella lotta contro il cambiamento climatico. Le emissioni di gas a effetto serra (GHG) nell’UE sono pari al 9% del totale globale, mentre le emissioni pro-capite sono inferiori a quelle della Cina e degli Stati Uniti. Questo risultato significativo è stato raggiunto grazie al progressivo disaccoppiamento del consumo di energia dal PIL e al ruolo crescente assunto dalle fonti rinnovabili, dall’energia nucleare e altre fonti di energia a basse emissioni di carbonio nel mix energetico. L’UE deve ora mostrare capacità di leadership aprendo la strada ad un nuovo meccanismo efficace e coordinato a livello internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici, costruendo una piattaforma globale per la decarbonizzazione. Un possibile punto di avvio potrebbe puntare al rafforzamento dell’attuale partenariato UE-Cina, in collaborazione con il G20 e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. I pilastri e i presupposti fondamentali per l’esistenza di tale infrastruttura internazionale esistono e sono ancora solidi, malgrado gli attacchi al sistema delle istituzioni multilaterali attualmente in atto.

Sebbene il Green Deal sia stato concepito e adattato al contesto specificamente europeo, questo può offrire tuttavia un quadro duttile per informare politiche ambientali e climatiche coordinate attraverso meccanismi snelli di codecisione basati sulle evidenze scientifiche, con le altre economie sviluppate, quali Stati Uniti, Canada o Giappone.

Allo stesso tempo, il Green (New) Deal è un riferimento coerente con le politiche cinesi che affrontano la transizione energetica e l’obiettivo della costruzione di una “civiltà ecologica”, nonché con il piano per la creazione di un’interconnessione energetica globale presentato alle Nazioni Unite dal presidente XI, a sostegno dell’elettrificazione dell’economia globale e al fine di ottimizzare l’uso delle energie rinnovabili in tutto il mondo.

Il vertice UE-Cina sul clima di Lipsia nel prossimo mese di settembre potrà offrire l’occasione per valutare la fattibilità di una piattaforma comune volta a stabilire e stabilizzare forme di mutua “cooperazione competitiva” al fine di decarbonizzare l’economia globale.

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