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L’estate è un assetto dell’anima

L’estate più che una stagione astronomica è un assetto dell’anima. Una stagione per sua natura contemplativa e lenta. Per chi la sa guardare assai più malinconica delle altre. Perfino della sua fine. Le giornate lunghe, i tempi lenti, un sole pronto a nutrirti ben al di sopra della tua fame, una luce irreale che batte dopo pranzo sulla bottiglia d’acqua nel tavolo, tra la noia e il sonno di quelle ore tre, lontanissime dal dormire notturno. 
L’estate è bestiale. L’estate è un cinghiale. 

Sia per chi si lancia nel caos dei vacanzieri e sia per chi resta, che felice di passeggiare in una città vuota tutta per se è divorato nello stomaco da qualcosa di profondamente infelice ad ogni passo. Alla fine la felicità è sopravvalutata diciamocelo pure. Musa per eccellenza la bella stagione è amata ma con lieve magone. Lo pensano tutti: quelli al casello e quelli che bevono un po’ d’acqua alle fontanelle del centro, padroni di una città tutta per loro, desolata e magnifica, ma un po’ troppo grande per potersi incontrare con chi orbita i tuoi pensieri . 

Nanni Moretti sull’estate ci lascia l’ eredità del monologo tratto da “Palombella Rossa“ (1989): 

 […quei pomeriggi di maggio non torneranno mai più …] raccontando un estate fanciullesca. 
Quando i capelli  profumano di shampoo al ritorno dalla piscina o dal mare. I piedi sono puliti nei sandali e tocchi la sabbia con la suola, scommettendo con la tua ombra di bambino che non un granello toccherà le tue dita. Dita pulite. Dita da canaglia. Da canaglia ben pulita. Canaglia che non ozia. Che cerca ancora mamma. Con guance di sole e una  negata stanchezza. Per colpa di un pomeriggio di giochi cattivi. Ma in tutta l’innocenza di una gelato confezionato! 

La febbre dell’estate colpisce eroticamente chiunque.  Un eros non per forza sessuale . Magari è stanco di tirare frecce e bucare gente, ma bighellona per la città anche lui. Nostalgico e solo. Cesare Pavese parla dell’estate come e di una donna che cade da un albero , come un frutto maturo in un giardino che egli già conosce. Infatti abbrevia e fa innamorare scrivendo: “un prato che so”. 

Probabilmente facendo alludere al lettore ad un giaciglio conosciuto ed intimo dei due. Qualcosa di piccolo e immenso. Perché sono solo l’intimità  e la conoscenza che potranno salvare l’erotismo in un mondo come questo. 
Sì anche in estate.
Sì anche con le applicazioni che calcolano i chilometri di distanza da un ipotetico o una ipotetica stallone/ giumenta, (la tastiera automatica suggerisce stalker quindi lo mettiamo in quanto altamente probabile) o stalker. 

Albert Camus invece ritrova sempre dentro di sé, nel buio globale della sua poetica un: “inguaribile estate”;  fosse quasi un contratto di salute o questo assetto dell’animo. Meraviglioso è il suo “L’estate e altri saggi solari” edito da Bompiani. 

Carlo Verdone cerca urlando una Marisol che non lo corrisponderà mai, in uno zoo di una Roma rovente e desolata degli anni ottanta. Tanto calda quanto neanche gli animali hanno il coraggio di affacciarsi dalle loro gabbie. Mentre nell’altro episodio del medesimo film: “Un sacco bello” (1980), in un’assolatissima Montesacro, il medesimo protagonista, divorato dalla solitudine, attende uno sconosciuto per mettere in piedi una patetica vacanza. 

Bruno Martino scriverà sulle note di Michel Petrucciani:  
[…]  “estate sei peggio dei baci che ho perduto. Sei peggio dell’amore che ho lasciato. Odio l’estate”. 

In un momento di alta psicosi il protagonista (Edoardo Gabriellini) del cult anni novanta “Ovo sodo” (1997), andrà fuori traccia nel tema della maturità scrivendovi quanto avrebbe voluto che il traghetto preso dalla sua innamorata con un altro affondasse.  

Adriano Celentano schiacciato dall’azzurro cerca la sua amata ricordandola negli appuntamenti frenetici dell’inverno, annunciando che questi pomeriggi esageratamente lunghi lo faranno correre da lei col primo treno perché ormai è privo di risorse. 

Insomma sembra quasi che chi si ama davvero d’estate non sia destinato ad incontrarsi e riposare insieme. 

Atto magico per chi si vuole bene. E assetto estivo. 

Questa quindi non resta che essere una stagione felice solo per l’infanzia? Tra giochi, giorni perduti e vacanze lunghissime. Senza tempo e senza amore . Perché l’amore è un esaurimento nervoso, quindi meglio raccogliere i vetri stondati dal mare e pensarli smeraldi che imbarcarsi in un esaurimento. 

“Troppa luce per nascondere le intese, troppa luce per nascondersi” canta all’amante Franco Battiato. 

In “Canzone per l’estate” Fabrizio De André, con metafore e allegorie uniche compone una vera e propria condanna a morte per un povero Cristo. Facendogli le pulci anche sugli occhiali da dover cambiare. 

Mentre Guccini, travolto dallo scirocco (titolo della canzone), vento “lucido e irreale” come lo descrive, viene lasciato inaspettatamente in un bar dalla donna che ama. Tutto questo con un caldo pazzesco. 

Emily Dickinson implora dalla sua stanza: “Fai che per te io sia l’estate anche quando saran fuggiti i giorni estivi.” 

 E c’è chi parte. Fugge. 
Si imbottiglia nel traffico con un peso insostenibile di oggetti avventurandosi in qualcosa di ben peggio di una settimana lavorativa. Molti lo fanno per sfuggire alla malinconia profonda che caratterizza il tempo estivo, inconsapevoli della matrice contemplativa della stagione. Altri, coscienti del primato della malinconia sulla felicità, si nutrono del caos proprio per rinfocolare lo spaesamento. 

Le citazioni su questa stagione sono infinite.
Cercatele. Raccoglietele. Aggiungete alle vostre playlist ogni canzone menzionata e vedrete che queste vi  parleranno sicuramente di noi stessi. O di qualcuno a noi caro. O di una storia sentita dire. Confermerete che l’estate se vista bene è una straordinaria tragedia. Una fiera famelica sui sentimenti sepolti. 
Ora non richieste di introspezione, divertimento e sudore.  
Eppure… quanto è bella vederla tornare questa bestia selvatica e lenta.  
Sempre attesa. Tutte quelle ore lente, con quella luce sparata sui pensieri indubbiamente sono eccitanti ma terrorizzano anche. 

Un po’ come alla fine dei rave, quando senti cantare il primo uccellino. 

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