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La scomparsa dei Balcani: il futuro all’ombra delle Alpi dinariche

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Terra sospesa tra confini invisibili, i Balcani, come il ponte sulla Drina narrato da Ivo Andric, si distendono tra polarizzazioni di antica e nuova natura: Occidente e Oriente, mondo cristiano e musulmano, cultura latina e bizantina. Lungo le alpi dinariche corrono le conformazioni calcaree della Balcania, il cuore geologico interno dell’area morfologica che, dirimpetto alla costa, si slancia montagnosa su vasti plateau dalla Croazia al Nord dell’Albania.

Frazionamento dell’esperimento autonomistico-comunista di Tito, oggi gli stati dei Balcani occidentali si interrogano sul loro futuro mentre Bruxelles sembra dimentica dell’importanza strategica della Regione. Possono i Balcani non esistere più? Domanda tutt’altro che retorica e che interroga le profondità pneumatiche di una regione che appare essersi fermata ai traumi del conflitto bellico e fratricida delle guerre jugoslave. Siamo dinnanzi ad un’effettiva scomparsa degli stati balcanici sia in senso reale che metaforico? Questo l’interrogativo che si pone il professore Francesco Ronchi nel suo ultimo lavoro realizzato per Rubettino.


Balcani: gli elementi di criticità della Regione

Scomparsa che si delinea su più dinamiche vettoriali storiche e sociali. In primis, la tendenza remissiva della demografia. La regione vive un impoverimento significativo di nascite ma soprattutto soffre la forte migrazione che spinge giovani e laureati a lasciare la propria casa per salari migliori e nuove possibilità lontano dall’ombra delle Alpi dinariche. Meccanismo spesso accettato dalle logiche politiche per sfogare tensioni sociali giovanili generalmente focolaio di rivoluzioni o proteste.

L’altro elemento che appare scorrere con ferocia tra le pieghe dei monti della Balcania è il mancato superamento delle discordie belliche e il pericolo di una nuova implosione delle realtà nazionali nate dalla fine del conflitto post jugoslavo. In altre parole la possibile esplosione di nuove violenze di guerra basate su istanze etno-nazionaliste e la messa in discussione del fragile ecosistema sorto dopo gli accordi di Dayton.

Evidenti le difficoltà in cui si muove, ad esempio, la Bosnia-Erzegovina, costretta all’immobilismo dai difficili equilibri di ingegneria costituzionale che le hanno permesso di rendersi indipendente ma a costo di meccanismi farraginosi che vedono crescere sia le spinte indipendentiste della Repubblica serba di Bosnia che i contrasti tra croati-bosniaci e bosgnacchi.

Le tensioni non si fermano alla sola Bosnia ma giungono in modo violento fino al Kosovo, le cui possibilità di indipendenza rappresentano una ulteriore scintilla per il riaccendersi delle rivendicazioni serbe. Proprio Belgrado è un player fondamentale per il futuro della Regione e le difficoltà di Bruxelles di costruire un saldo rapporto con l’amministrazione serba, in vista di un’entrata sempre più lontana nell’UE, hanno accentuato il suo status di Paese non allineato, retaggio dell’impostazione vetero-jugoslava, e la sempre maggiore affinità con la Russia, storicamente protettrice dei popoli slavi.

L’ulteriore elemento che evidenzia le criticità attuali dell’area dei Balcani occidentali, è la significativa capacità di penetrazione della criminalità all’interno delle istituzioni con la definizione di un’amplia rete corruttiva in grado di muoversi in modo rapido tra i porosi confini degli Stati dell’area. In particolare, come evidenzia Ronchi, i clan criminali sembrano aver assunto posizioni di primo piano anche nell’economia del territorio, in contrasto con le difficoltà economiche riscontrate dalle capacità produttive del sistema economico legale.

Tutti questi elementi sottolineano una difficoltà per i Balcani occidentali di uscire definitivamente dai traumi dei recenti conflitti bellici, dimostrando non un’accettazione conscia dei drammi vissuti dopo il crollo della confederazione jugoslava,  ma l’impossibilità di rimettere in discussione gli assetti post bellici per la mancanza di risorse umane ed economiche, una stasi profonda che frena, paradossalmente, sia lo scoppio della violenza totale, con un ritorno alla guerra, e sia processi effettivi di cambiamento politico-sociale.

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