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Elogio del Fallimento. Quattro lezioni di umiltà. Ci è ancora concesso fallire?

Elogio del Fallimento. Quattro Lezioni di Umiltà

Il fallimento si dice in molti modi, prendendo a prestito un’espressione aristotelica. Questo è quanto si evince dalla lettura di Elogio del Fallimento. Quattro lezioni di umiltà, libro edito da Il Saggiatore (2023).  Costica Bradatan, l’autore, è nato nel 1971 a Drăgoiești in Romania, ed è oggi un professore di Studi umanistici alla Texas Tech University.

Elogio del fallimento: quattro modi di fallire

Fallimento e umiltà sono legati a doppio filo. Dal fallimento deriva l’umiltà, che innesca il processo di guarigione e crescita. Che è un po’ lo stesso concetto del verso cantato da De André: “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. Il fallimento è considerato come un’esperienza di disconnessione, rottura, sofferenza, che implica un distacco doloroso, non voluto, tra noi e la situazione o condizione che ha smesso di operare secondo le nostre aspettative. Quel distacco doloroso proprio dell’imprevisto, di ciò che va oltre la nostra mania del controllo. Il fallimento è ad oggi demonizzato. Fallire non è mai una possibilità concessa. La società del successo e della performance non ci permette neanche di ponderare l’eventualità dell’errore. Ecco perché ci viene così difficile accettare il nostro inevitabile fallimento.

L’intero impianto del libro si propone una rivalutazione ontologica del fallimento, attribuendogli il suo essere parte inalienabile dell’esistenza umana, connaturato alla precarietà stessa della nostra esistenza, ma non solo. Il fallimento è l’unica condizione data la quale una crescita, un’evoluzione autentica sono possibili.

Il libro si divide in quattro capitoli, ognuno deputato a trattare un tipo di fallimento. Il fallimento è da immaginarselo avviluppato secondo cerchi concentrici, procedendo dall’anello più esterno a quello più interno, dall’esteriorità delle cose di cui siamo circondati alla sfera più intima e vicina, ossia la nostra stessa esistenza, il nostro tenerci aggrappati alla vita. Ogni capitolo ha poi un emblema, o meglio più emblemi, figure che con la loro stessa vita sono stati simboli più o meno consapevoli di quel precipuo modo di fallire. Si tratta, infatti, di un libro polifonico. Ogni capitolo nel trattare la sua peculiare tipologia di fallimento interseca più voci insieme: scrittori, filosofi, artisti, poeti, politici di ogni epoca storica, dall’antica Grecia alla contemporaneità.

Il fallimento fisico è il primo tipo di fallimento e consiste in quella dissonanza spirituale, quella consapevolezza di essere altro dalle cose, pur vivendo circondati da cose e pur essendo dipendenti da esse. L’emblema è Simone Weil, la quale dice di sé stessa di sentirsi disadattata e fuori posto.

Si passa poi al fallimento politico. La polis è un cerchio più ristretto rispetto all’esternalità che caratterizza gli oggetti intorno a noi. La città non ci è estranea, siamo noi. Nessuno può dirsi fuori dalla vita politica; perfino gli anarchici o i ribelli lo sono rispetto alla società che criticano. La figura emblematica, tanto osannata quanto discussa, è quella di Gandhi. il suo destino è quello di morire ucciso dal fallimento del suo programma della non-violenza.

Abbiamo poi il fallimento sociale. Le società condizionano il nostro modo di pensare e parlare. L’inazione è la strada scelta da Cioran come unica risposta logica ad una vita priva di senso.

L’ultimo fallimento, il più intimo, quello che ci riguarda più da vicino, è il fallimento biologico, la perdita di senso della nostra esistenza prossima, che conduce al suicidio, alla morte biologica. Ne è protagonista Yukio Mishima, scrittore, drammaturgo, poeta e saggista giapponese, che mise in pratica l’ideale della «bella morte» nel novembre 1970.

Il fallimento ha il potere di metterci di fronte alla nostra precarietà. È la consapevolezza che un minimo inconveniente o imprevisto, anche pratico o tecnico, possa decidere in un attimo di tutta la nostra stessa vita. Il fallimento è funzionale al disincanto. In generale, il libro sembra essere debitore di alcuni concetti fondamentali di Essere e Tempo di Martin Heidegger. L’essere-per-la-morte, la decisione anticipatrice della morte, è per l’uomo l’unica possibilità autentica. L’essere-per-la-morte conferisce all’uomo un senso di totalità, ma anche una storia, una temporalità, all’interno della quale solo possono darsi tutte le possibilità autentiche.

Il processo di assimilazione alle macchine: l’uomo-automa

Proviamo a ripercorrere seppur brevemente alcuni dei grandi temi affrontati nel testo. Uno dei temi centrali del primo capitolo chiama in causa, innanzitutto, la visione e la percezione del corpo e attraverso il corpo, la relazione tra uomo e macchina, tra uomo e tecnica, anche questo un prestito heideggeriano. Simone Weil è citata nel primo capitolo come emblema della goffaggine. La goffaggine come forma peculiare di fallimento è, e al tempo stesso non è, una forma personale di fallimento. Lo è perché rappresenta il nostro corpo nella sua incapacità di posizionarsi rispetto al mondo. Non lo è perché è un tipo di fallire che non si può davvero controllare.

Di Simone Weil viene narrata anche la sua esperienza di vita che la porta a mettersi alla prova con il lavoro in fabbrica. Il soggetto che lavora in fabbrica è deprivato della sua condizione di detentore di diritti. In queste esperienza, Simone Weil riflette sulla figura di Gesù Cristo, che si è fatto schiavo, si è fatto ultimo degli ultimi per venire sulla Terra. Da qui Weil riscopre un afflato mistico-religioso, dal momento che il cristianesimo si professa come la religione degli schiavi. L’esperienza della schiavitù avvicina all’umiltà profonda, che è il dono del fallimento.

Viene citato anche il celebre film Tempi Moderni di Chaplin, in cui si porta in scena la disumanizzazione dell’operaio annientato dalle macchine che ha intorno. Il confronto è presto fatto. Mentre nel ‘900 la macchina aveva ancora bisogno dell’uomo, ai nostri tempi ultra-moderni, i tempi degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale, la macchina non ha quasi più bisogno di noi. Se i Greci avevano come obiettivo della vita umana il processo di assimilazione alla divinità, ora il processo è quello di assimilazione alla macchina. La direzione che sembriamo aver intrapreso è quella che ci porterà a diventare automi umani. Vogliamo essere efficienti, efficaci, ben collaudati, morti dentro.

Una fede malriposta

Il fallimento politico si fonda su un rapporto complesso e ambiguo tra il politico e la comunità o la folla a cui si rivolge. Il rapporto tra l’oratore e la massa viene paragonato alla dinamica di un rapporto sessuale. Il riferimento all’ascesa e alla presa di potere di Hitler viene presa come esempio. Il popolo tedesco all’epoca era considerato il popolo più colto d’Europa, mentre Hitler si può definire senza troppi giri di parole una persona non altrettanto colta, eppure come è potuto accadere ciò che tutti sappiamo? Il potere della politica, che è simile da questo punto di vista al potere della religione, è di dare un senso all’esistenza, dare un significato alla vita dell’uomo, fosse anche solo un’apparenza di senso. L’uomo necessita di un fine per agire. Aristotele nell’Etica Nicomachea definisce la specificità dell’agire pratico proprio in relazione al fine che questo si pone. La filosofia pratica è agire in vista del fine e questo distingue la práxis (agire pratico) dalla poíesis (il fare produttivo). A ciò si aggiunge che il fine immanente dell’agire pratico è l’eupraxia, l’agire bene in senso morale, un agire in vista del bene. L’eupraxia viene interpretata come l’agire bene per l’agire bene, l’azione virtuosa come fine in sé stessa.

Alla politica chiediamo che ci dia un senso, che dia un significato alla nostra esistenza, lo stesso significato che prima chiedevamo a Dio. La morte di Dio lascia un vuoto che va colmato e viene colmato con il credere a tutto purché sia. Il bisogno di senso, di una narrazione che ci appartenga è alla base dei complottismi o delle varie teorie della cospirazione a cui a cui assistiamo oggi.

La politica populista si rivela un esempio di fede malriposta, come nel caso del popolo tedesco rispetto alle follie di Hitler. Il leader carismatico incarna una promessa di significato per chi ha fame di spiritualità. In questo caso la verità o la falsità delle idee è completamente ininfluente. La verità non si mostra attraente quanto una narrazione salvifica. Non è implicata la verità o la logica, ma uno scambio emotivo.

Anche una fede malriposta può essere malriposta in molti modi. È malriposta la fede nel leader populista. È malriposta anche la fede nell’ideale greco di paideia. Da sola l’istruzione umanista non è in grado di cambiare profondamente l’essere umano in direzione della vera democrazia. L’accesso su larga scala all’istruzione superiore non è bastato al cambiamento profondo della società. La democrazia resta un sogno senza una vera istruzione in grado di cambiare la natura umana, di trasformare studenti in cittadini che vivono e sono inclini ai veri ideali democratici.

Il fallimento politico è il fallimento della politica della non-violenza di Gandhi, così come è il fallimento delle due grandi Rivoluzioni moderne, francese e russa. La storia ci testimonia come la violenza sia stata e sia ancora strumento per raggiungere una nobile causa o un’evoluzione sociale e politica. L’autore allora riflette, e allo stesso tempo stimola i suoi lettori a riflettere, su quale sia o debba essere il rapporto tra la nobiltà di una causa e i mezzi per raggiungere il fine? La Rivoluzione Francese è stata celebrata come un gesto di purificazione, che prevedeva la necessità di un taglio netto con il passato. Ma l’ideale della rivoluzione può davvero giustificare ogni azione: violenza, omicidio, genocidio? Da questa domanda a cascata segue tutta una serie di altre domande. La virtù e la nobiltà di una causa può giustificare ogni violenza? Una causa che si propone come il futuro, il progresso, che ha come fine ultimo la pace, giustifica ogni violenza? Chi stabilisce la giustezza della causa rivoluzionaria? La rivoluzione è buona per chi? Deve essere buona per tutti o basta sia buona per i più? Dobbiamo considerare la sua bontà o giustezza solo in relazione al suo essere giusta nel futuro noncuranti del presente? È inevitabile non percepire il mortale peso con cui queste domande dovrebbero gravarci addosso, se ne estendiamo la portata fino ai giorni nostri, alla tragedia in atto a Rafah di queste ore.

Salvi per nascita o condannati alla dannazione eterna?

Il capitolo terzo, intitolato Vincenti e Perdenti, inizia con una lunga e molto interessante discussione sulla teoria della predestinazione. Questa teoria che fu prima di San Paolo e poi di Calvino sembra teorizzare e fondare sulla scelta divina il fallimento per nascita degli uomini. Un fallimento simile non solo diventa inevitabile ma anche irreversibile. Come si sfugge al fallimento se siamo nati già con l’onta, con il marchio indelebile della dannazione? I condannati dalla teoria della predestinazione sono perdenti in senso assoluto, non c’è nulla che potrà salvarli. Gli uomini di successo, gli Eletti di Calvino, hanno bisogno di avere intorno i perdenti. Cioran, Orwell e Chaplin sono i tre esempi di perdenti di cui il terzo capitolo tratta. Cioran con la sua avversione per l’acclamazione e i riconoscimenti dell’Accademia; Orwell con i suoi esperimenti di povertà; Chaplin con il suo Charlot.

In questo concetto di fallimento affonda le radici il sistema economico del capitalismo. L’essenza e il risvolto sociale del capitalismo si fonda sul gioco del fallimento. Tutto sta nel trovare qualcuno con cui mettersi a confronto e di cui dire “ha meno o è meno di me”. Siamo in un mondo guidato da due forze uguali: la disperata fretta di ottenere successo e l’ansia di fallire. Il termine fallimento, così come perdente, si sono evoluti dall’accezione economica di “perdita” di un bene materiale al senso figurato che rimanda alla perdita o allo spreco di occasioni di vita. Sete di successo, ansia di fallire, ossessione per classifiche e valutazioni, smania di guadagnare di più per spendere di più: ecco il quadro psicopatologico degli uomini contemporanei.

La verità è che banalmente siamo progettati dall’inizio per fallire inevitabilmente. L’ultimo fallimento è quello biologico. Nonostante la morte sia il nostro fallimento più intimo, non siamo mai preparati, pronti a fallire. Non siamo educati per affrontare la morte. Nessuna specie animale a parte quella umana può determinare volontariamente la sua fine. Secondo Bradatan la possibilità del suicidio è il prezzo da pagare per la nostra autocoscienza.

Il protagonista dell’ultimo capitolo è Yukio Mishima, famoso per il suo suicidio nel novembre del 1970, dopo aver preso in ostaggio il comandante di una base militare di Tokyo. Il capitolo si concentra sul discorso che fece Mishima ai soldati della Forza di autodifesa giapponese, che egli voleva aizzare ad insorgere contro la costituzione giapponese del 1945, una costituzione pacifista con cui di fatto gli americani avevano obbligato il Giappone a non avere più un esercito.

Insieme a Mishima come compagno di suicidio c’è Seneca. Cotidie morimur, diceva Seneca. Ogni giorno è un pezzo di vita che la vita perde e la morte strappa. Ogni giorno ci avviciniamo un pochino di più alla morte. Riappropriarsi della nostra morte è funzionale ad avere controllo su di essa per non avere più paura. Platone nel Fedone descrive la vita come melete thanatou, come nient’altro che esercizio, preparazione alla morte. La Morte come il Nirvana, il Nulla che è uguale al Tutto, come l’archè, l’origine o il principio, di cui erano alla ricerca i primi filosofi greci, da cui tutte le cose provengono e in cui tutte le cose svaniscono.

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