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Bones and All di Luca Guadagnino. Il racconto di formazione più macabro

Rotenburg, Germania, marzo 2001.

il tecnico informatico Armin Meiwes è uno dei membri più attivi del The Cannibal Cafè, forum online frequentato da decine e decine di persone apparentemente normali, senza nulla in comune se non una macabra passione: cibarsi di carne umana.

Ed è in questo contesto fatto di devianza e perversione che il nostro protagonista pubblica un annuncio disturbante: “cerco uomo ben fatto tra i 18 e i 30 anni da uccidere e macellare”.

Al suo annuncio risponde un ingegnere elettrotecnico di Berlino, il bisessuale Bernd Brandes, la cui ossessione è invece quella di essere divorato.

I due uomini, dalle perversioni opposte ma perfettamente complementari, si incontrano nella villa di Meiwes a Rotenburg, dove non prima di aver concordato col suo compagno di morte i dettagli dell’orribile banchetto, e di aver assunto una massiccia dose di alcool e droghe, Brandes si fa uccidere dallo stesso Meiwes, che poi ne macella il corpo per nutrirsene nei mesi successivi.

Due sono gli elementi che poi avrebbero inchiodato Meiwes: il primo era un nuovo annuncio pubblicato sul The Cannibal Cafè nel tentativo di procurarsi altra carne umana, e il secondo era il filmato della macellazione di Brandes, realizzato da Meiwes nella probabile consapevolezza che difficilmente un momento del genere si sarebbe ripetetuto.

Oggi il Cannibale di Rotenburg sta scontando un ergastolo presso la prigione di Kassel, dalla quale ha rilasciato svariate interviste e dichiarazioni: a suo dire, esisterebbero più di 800 cannibali solo in Germania, e se alcuni di questi sono persone chiaramente disturbate, altre riescono perfettamente a dissimulare, a salvare le apparenze, a nascondere dietro una facciata di rispettabilità quegli istinti antropofagi che la società dei sani non potrebbe mai capire né tanto meno accettare.

La storia del Cannibale di Rotenburg non è connessa a quella narrata da Luca Guadagnino nel suo Bones and All, ma a detta di chi vi scrive tale vicenda di cronaca offre la giusta chiave di lettura per approcciarsi a questo film.

In particolare, è proprio una delle tante dichiarazioni di Meiwes fatte dal carcere a racchiudere l’essenza stessa di questa storia:

“mi chiamo Armin Meiwes, sono nato nel 1961, ho ucciso un uomo e l’ho mangiato, e da quel momento lui è sempre con me.”

Il punto di vista dei mostri

Partiamo col dire che chi vi scrive non ha letto il romanzo di Camille DeAngelis da cui è tratta la pellicola, quindi non può sapere quali idee siano attribuibili al regista e quali all’autrice, ma quello che più colpisce di Bones and All è il suo modo di focalizzarsi non tanto sulla pratica del cannibalismo in sé per sé, evitando così di scadere nel gore gratuito e in un’esibizione pornografica di sangue e viscere, quanto sulla condizione stessa del cannibale: i cannibali di Guadagnino non sono mostri che godono nel fare del male, né vittime disperate di un qualche tipo di maledizione.

Non hanno un’origine delineata, o un motivo specifico per fare quello che fanno.

Non sono né buoni né cattivi.

Sono e basta.

Proprio come tutti noi, semplicemente sono nati così, e loro è la scelta di cosa fare della loro condizione, se sopprimerla o lasciarsi andare agli istinti, se mimetizzarsi tra i cosiddetti “normali” oppure diventare dei reietti, spostarsi da un posto all’altro senza integrarsi mai da nessuna parte perché in fondo sanno di non essere, e che non saranno mai, come tutti gli altri, e probabilmente neanche vogliono esserlo.

A dire il vero il film non pretende neanche di farci empatizzare con questi cannibali, di farci tifare per loro, e infatti un altro elemento che colpisce è la distanza emotiva della narrazione: nonostante le tematiche trattate, la narrazione è estremamente fredda, quasi asettica, volta esclusivamente a mostrarci quello che succede senza metterci troppa bocca (gioco di parole non voluto).

E questo ci collega proprio alla rappresentazione totalmente inedita del cannibalismo che offre questo film.

Dimenticate le urla, il sangue e il disgusto gratuito: i cannibali di questo film non si nutrono semplicemente di carne, di comparse messe a fare da vittime sacrificali per una trama che ha bisogno dei morti per andare avanti.

Si nutrono di persone, e le persone non sono semplicemente corpi, sangue e organi: sono emozioni, ricordi, pensieri, esperienze, intere vite, e quando mangi una persona, in qualche modo tutto questo diventa parte di te.

Bones and All indaga l’aspetto spirituale del cannibalismo: i pasti in questo film assumono connotati quasi ritualistici, sono un modo per guardare in faccia i propri istinti e al tempo stesso sopprimerli, per ammettere almeno con sé stessi quello che si è realmente prima di tornare a far finta di nulla, e creano legami talmente stretti da risultare talvolta fatali.

Ma aldilà di questa sfera trascendentale, non pensate che il regista non abbia inserito qualche piccola perla orrorifica: la regia asettica, la tensione costruita sulle potentissime performance degli attori, e la capacità di Guadagnino di inserire il gore laddove sa perfettamente che colpirà più forte lo spettatore, vi regaleranno diversi balzi sulla poltrona, e scene che vi si pianteranno nella testa come una mannaia affilata.

Storia d’amore e di macello

Ma Bones and All non è solo una storia di gente che mangia altra gente.

Questa è soprattutto una storia d’amore, e Guadagnino è abile nell’equilibrare in maniera perfetta i due aspetti del film: amore e morte, eros e thanatos, vanno di pari passo, talvolta alternandosi, talvolta addirittura accompagnandosi l’uno all’altro, in una danza macabra e spiazzante dalla quale però è letteralmente impossibile staccare gli occhi, anche per via della forte connotazione erotica che assumono gli stessi atti di antropofagia.

D’altronde oggi, grazie a criminologia e psicologia, sappiamo perfettamente come alla base del cannibalismo, così come alla base di tutte le parafilie, vi siano pulsioni sessuali deviate, e non è quindi un caso che la protagonista assoluta sia la Maren di Taylor Russell, che pur con i suoi 28 anni riesce perfettamente a incarnare una ragazzina poco più che adolescente, una ragazzina che si sta a malapena affacciando alla vita adulta e che quelle pulsioni non le controlla né tantomeno le comprende, una ragazzina alla ricerca di sé stessa e del suo posto nel mondo.

Ed è altrettanto logico che il suo compagno di viaggio, nonché perfetto contraltare, sia il Lee di Timothée Chalamet, la cui particolare fisicità viene sfruttata in questo film come mai è stato fatto finora, e sul quale l’archetipo del bello e dannato, quello per cui quel posto nel mondo tanto agognato da Maren somiglia tremendamente a una prigione, quello che vive intensamente le sue pulsioni senza alcun freno etico né morale, quello il cui fascino deriva proprio dalla su comportamento autodistruttivo, cala perfettamente.

Ed è in questo racconto di formazione che, tra musica pop, rivelazioni sorprendenti, e sterminati paesaggi del midwest, trovano spazio personaggi memorabili come il perverso Jake di Michael Stuhlbarg, apparentemente caricaturale e sopra le righe, ma cruciale per lo svolgimento dell’arco narrativo dei due protagonisti, o il terrificante Sully di Mark Rylance, un vero e proprio Virgilio oscuro, guida di Maren in questo mondo che, pur nella sua devianza e follia, presenta regole non scritte, ma ben precise.

Insomma, Bones and All è un film destinato a far parlare di sé.

In esso potrete trovare un racconto fortemente introspettivo e dilemmi etici e morali, una storia d’amore coinvolgente e orrore viscerale e d’impatto.

È il lavoro di un grande autore che si rivolge a una platea colta e raffinata, ma che tra attori famosissimi, rimandi al cinema di genere e tematiche ormai sempre più popolari, può tranquillamente rivolgersi ad un pubblico più generalista.

In effetti qualcuno potrebbe tranquillamente chiedersi perché.

Perché racconti così macabri, a volte radicati in storie tragicamente reali, stanno riscuotendo un tale successo presso il grande pubblico? Basti pensare anche soltanto alle polemiche suscitate dalla serie Netflix Mostro dedicata alla storia del serial killer Jeffrey Dahmer, accusata da molti di portare alla mitizzazione di figure negative e all’apologia di pratiche perverse.

Chi vi scrive certo non è un esperto di sociologia, quindi prendete le sue parole per quello che sono, per quelle di un comune spettatore che come voi è ormai saturo di intrattenimento ipercinetico fine a sé stesso, e a cui è ormai ben chiaro come il cinema di genere per il grande pubblico possa accompagnarsi a sperimentazioni visive, ad argomenti controversi e a riflessioni sulla natura umana senza perdere le proprie peculiarità.

Certo, ci vuole coraggio per affrontare questi argomenti, argomenti che ci avvicinano talvolta pericolosamente alle nostre sfumature più cupe, e che è quindi normale siano controversi (dovremmo preoccuparci del contrario), ma se la Storia ci insegna qualcosa è che a volte bisogna essere capaci di guardare il mostro negli occhi per evitare di diventarlo, e proprio questo rende Bones and All un film così degno di nota: il fatto di riuscire a metterci dinanzi, come pochi film sanno fare oggi, al meglio e al peggio che l’umanità abbia da offrire.

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