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Cinque copertine degli album dei Pink Floyd, spiegate

LOS ANGELES - AUGUST 1968: Psychedelic rock group Pink Floyd pose for a portrait shrouded in pink in August of 1968 in Los Angeles. (L-R) Nick Mason, Dave Gilmour, Rick Wright (center front), Roger Waters. (Photo by Michael Ochs Archives/Getty Images)

Abbiamo selezionato cinque copertine tra tutti gli album dei Pink Floyd e abbiamo provato a raccontarne, di ognuna, la storia.

È difficilissimo scegliere cinque cover nell’immensa discografia quale è quella dei Pink Floyd. Un disclaimer prima di cominciare: abbiamo volutamente tagliato The Dark Side of the Moon, un concept troppo grande per poter essere ridotto soltanto a paragrafo di un articolo più generale, ma ciò che vedrete, ve lo assicuriamo, saranno tutte storie che vi rimarranno impresse a lungo.

Ummagumma (1969)

Iniziamo con il quarto album della band datato 1969. Realizzata dallo studio di design Hipgnosis, la copertina di Ummagumma è formata da un collage di più foto scattate nella stessa stanza, disposte una all’interno dell’altra, identiche tra loro ma con una rotazione dei membri del gruppo nelle varie posizioni, a giro. Nella foto nel retro di copertina (la cosiddetta “quarta” dei libri) è invece riportata un’immagine con tutto il materiale usato nelle rappresentazioni live: sulla pista dell’aeroporto di Biggin Hill, nel Kent, sono presenti, infatti, tutti gli strumenti e le amplificazioni della band. Dalle svariate Telecaster e Stratocaster di Gilmour, alla Premier doppia cassa di Mason, passando per i bassi Fender e Rickenbacker 4001 di Waters e l’organo di Wright. All’interno dell’album, nell’edizione originale, si mostrano degli scatti raffiguranti i quattro membri del gruppo: David Gilmour davanti all’Elfin Oak (un tronco d’albero di oltre 900 anni presente nei giardini di Kensington), Roger Waters in compagnia della moglie di allora, Nick Mason in una sequenza di scatti nel giardino della villa presente sulla copertina, chiude la serie Rick Wright, fotografato a fianco della tastiera del pianoforte.
Un’easter egg che si trova sulla copertina è un’altra cover di un album (in basso a sinistra nella foto): “Gigi: original cast soundtrack album”, tratto dall’omonimo film del 1958.

Atom Heart Mother (1970)

“La copertina faceva una gran figurain mezzo alle altre dell’epoca che cercavano di attirare l’attenzione in modo provocatorio. La mucca attirava lo sguardo più di quanto potessi sperare: era diversa perché così normale.” Parola di Storm Thorgerson, grafico dalla mente geniale ai quali i Pink Floyd affidarono molte delle loro copertine, compresa quella famosissima di Atom Heart Mother. Da nessuna parte compaiono il titolo, il nome del gruppo e l’elenco delle canzoni, è tutto più rarefatto e dubbioso rispetto al precedente Ummagumma. Il grafico aveva sottoposto al gruppo altre due idee: un tuffatore su un trampolino e una donna davanti ad una scalinata, ma i Pink Floyd scelsero la mucca. La scelta risultò essere anche la più economica: costò poco più di 30 sterline. Quando Storm Thorgerson mostrò la copertina a un funzionario della EMI, ricevette questa risposta: “Ma sei matto? Vuoi rovinare questa casa discografica?‘”.
Non esiste alcun collegamento tra la mucca e i brani presenti sul disco anche se successivamente Nick Mason accennò a una simbologia classica che vede la mucca come rappresentazione della Madre Terra e quindi un riferimento indiretto alla “madre dal cuore atomico”, con l’assonanza fra le parole “Heart” (“Cuore”) e “Earth” (“Terra”), ma ciò non risulta confermato dagli altri membri della band.

Meddle (1971)

Il premio per la copertina più particolare in questa speciale classifica tutta a tema Pink Floyd va a Meddle. La cover fu l’unica realizzata dagli stessi Pink Floyd (come scritto, peraltro, sulla copertina stessa), che rifiutarono la proposta di Storm Thorgerson dello studio grafico Hipgnosis e suggerirono un primo piano ravvicinato di un orecchio sott’acqua, fotografato da Bob Dowling. Thorgerson, che, invece, curò l’aspetto grafico finale, si dichiarò in seguito insoddisfatto del risultato poiché aveva invece proposto la foto dell’… ano di un babbuino. Per i Pink Floyd il padiglione auricolare fotografato a distanza ravvicinata indicava la musica mentre le increspature dell’acqua rappresentavano i disturbi, le interferenze durante l’ascolto.

Obscured by Clouds (1972)

Una scelta “accidentalmente” astrattista, invece, la si ha con la copertina di Obscured by Clouds, in cui compare un fotogramma del film fuori fuoco. I Pink Floyd tornarono ad affidarsi a Storm Thorgerson il quale, poco ispirato dalle immagini del film, mentre cercava di far funzionare un proiettore, ne causò accidentalmente lo spostamento delle lenti e l’immagine che in quel momento stava venendo proiettata (cioè un uomo seduto su un albero attraverso il quale filtrava la luce solare) venne sfocata; il risultato gli sembrò adatto ai primi lavori psichedelici del gruppo e decise di proporla per la copertina.
Un fun fact incredibile: in Turchia, l’album ebbe una versione con una copertina totalmente diversa raffigurante, invece, una foto dei Queen durante un concerto.

Wish You Were Here (1973)

Chiudiamo la nostra breve (ma, speriamo, intensa) rassegna con un’icona: Wish You Were Here. Il “solito” Thorgerson aveva accompagnato la band durante svariati tour e aveva riflettuto sui testi dei brani, arrivando alla conclusione che le canzoni erano praticamente tutte, in generale, collegate alla “tematica dell’assenza”. Per questo motivo, decise che il tema dovesse riflettersi nell’idea per la copertina del nuovo album. Prendendo ispirazione da Country Life dei Roxy Music (uscito coperto da un cellophane verde per censurare la copertina originale che ritraeva due ragazze discinte), pensò di replicare l’idea della “busta” per Wish You Were Here, questa volta utilizzandone una di colore nero opaco. La copertina dell’album venne quindi ricoperta con un imballaggio nero opaco e un disegno centrale ideato ispirato ai brani Welcome to the Machine e Have a Cigar che suggerirono l’utilizzo della stretta di mano tra due robot.
La copertina vera e propria dell’album venne invece ispirata dall’idea che le persone tendono a nascondere i propri reali sentimenti, per paura di rimanere “scottati”, e si concretizzò nell’immagine dei due uomini d’affari che si stringono la mano mentre uno di loro ha preso fuoco. In inglese, “getting burned”, era anche un modo di dire di uso comune nell’ambito dell’industria discografica, spesso utilizzato per artisti che avevano ottenuto grossi insuccessi. Dal punto di vista puramente tecnico, per la foto furono impiegati due stuntmen e lo scatto fu realizzato ai Warner Bros. Studios di Los Angeles ma, inizialmente, quel giorno, il vento soffiava nella direzione sbagliata e le fiamme arrivarono fino a lambire il volto di Rondell, bruciandogli i baffi.
Il retro di copertina, d’altro canto, mostra un rappresentante commerciale senza volto denominato “Floyd Salesman”, che, nelle parole di Thorgerson, “vende la propria anima nel deserto”. L’assenza di polsi e caviglie segnala la sua presenza come mero involucro, un “vestito vuoto”. In tutto questo, la scelta di coprire l’elaborato e ragionato artwork di copertina dell’album con una busta di plastica nera non venne ben accolta dall’etichetta statunitense dei Pink Floyd, Columbia Records, che cercò di farla modificare, ma senza successo.

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