Quasi 44 milioni di elettori sono chiamati alle urne il prossimo 20 Dicembre in RDC. Ventisei candidati, tra i quali l’attuale capo di Stato Felix Tshisekedi, corrono per elezioni contemporaneamente presidenziali, parlamentari, provinciali e comunali, in uno scrutinio monumentale, dalle mille incognite e sfide: sicurezza, logistica, economia.
Felix Tshisekedi, che vorrebbe fare del suo Paese la “Germania dell’Africa”, porta avanti una campagna elettorale volta alla creazione di più posti di lavoro. Il suo primo mandato è stato segnato da una crescita economica di rilievo, ma anche da una fortissima inflazione e una pesante disoccupazione.
Quando è arrivato al potere all’inizio del 2019, Tshisekedi ha cominciato a girare le capitali mondiali nella speranza di attirare investitori. È durante un viaggio a Berlino che ha promesso di trasformare la Repubblica Democratica del Congo, ricchissima in minerali ma con una popolazione poverissima, in una potenza industriale.
Cinque anni dopo, può avvalersi della riuscita di alcune riforme sociali, come la gratuità della formazione scolastica o della cure necessarie alle giovani mamme in attesa. La crescita economica è stimata dalla Banca Mondiale a 6,8% nel 2023, le riserve in valuta sono passate da 1 miliardo di dollari nel 2019 a quasi 5 miliardi e il bilancio annuale arriverà a 16 miliardi di dollari, contro i 5,7 del 2019, grazie al settore minerario. Ma la strada verso la rielezione non è veramente in discesa.
Il settore minerario è la croce e delizia di questo grande Stato. Diamanti, petrolio, oro, rame, cobalto, cassiterite, coltan… il sottosuolo della RDC è uno dei più ricchi del mondo. In questi ultimi anni, nuovi attori come i gruppi cinesi o intermediari emiratini sono venuti qui ad investire miliardi di dollari. Malgrado ciò questa manna non cade sull’economia congolese e il Paese non riesce ad uscire dalla povertà. Più di 70% dei Congolesi vivono oggi con meno di 2 dollari al giorno. I minerali, una maledizione?
Quando Leopoldo II, re dei Belgi (1865-1909) fa del Congo una sua personale proprietà nel 1885, si impegna a che le sue materie prime e i suoi minerali rimanessero accessibili solo alle grandi potenze dell’epoca.
Dall’arrivo dei primi Europei in questo immenso Stato dell’Africa centrale, il sottosuolo rimane oggetto di contesa per più di 60 anni dopo la sua indipendenza (1960). Si è spesso definito il Congo uno “scandalo geologico”: la RDC è oggi il terzo produttore mondiale di rame e il suo sottosuolo genera oggi il 70% della produzione mondiale di cobalto. Non dimenticando i diamanti, lo stagno, il nichel…
Le esportazioni di minerali rappresentano il 90% delle esportazioni del Paese, e più della metà di queste partono verso la Cina. Ma queste risorse non costituiscono che il 30% delle entrate fiscali. Lo stato di fatto non partecipa ai dividendi dei guadagni di questo settore, guadagni che ovviamente non arrivano neanche alla popolazione.
Nel 2018, il Governo aveva azionato un nuovo codice minerario che aveva come obbiettivo di dare maggior margine di manovra alle autorità pubbliche congolesi nei negoziati con i grandi gruppi stranieri. Ma il problema è soprattutto strutturale.
Sotto la presidenza Mobutu (1965-1997), l’allora Zaire aveva un attore pubblico potente, la Gecamine, compagnia statale con base nell’alto Katanga. Nel 2010 questa è stata privatizzata e in parte parcellizzata in tanti attori privati. Questo ha fatto sì che perdesse forza contrattuale e i grandi gruppi cinesi si sono imposti imponendo ai Congolesi condizioni ancora più dure di quelle dei gruppi europei.
La ricchezza del sottosuolo continua ad attirare le potenze straniere, tra queste il Ruanda, grande esportatore di minerali come cobalto e coltan. Minerali che però arrivano, guarda caso, dalle regioni dell’est della RDC. Il Governo del Ruanda nega ovviamente qualsiasi implicazione nella guerra che colpisce l’est del Paese, e nega essere dietro al M23, movimento armato che reprime il Nord-Kivu.
Le miniere sono di fatto di due tipi. Quelle artigianali situate nell’est del Paese, nelle zone del conflitto, finanziano i gruppi armati. I minerali partono verso un Paese vicino (uno a caso, il Ruanda) per essere poi esportato verso un “intermediario” che poco indaga sulla sua provenienza. Questi intermediari si trovano a Dubai, che da parte sua cerca di “sradicare” il contrabbando investendo in modo ufficiale in partnership con Kinshasa. Una bella complicazione. Ci sono poi i numerosi casi di contratti squilibrati a detrimento della RDC. Spesso colpa della corruzione e cattiva governace.
Rari sono i Paesi che riescono ad evitare la maledizione delle materie prime, vedi il Venezuela, ma qualcuno è riuscito d esorcizzare il problema. Il Botswana per esempio ha creato un fondo a favore delle future generazioni, alimentato dalle risorse in diamanti. E pare che funzioni.
Ci siamo dilungati su questo argomento perché l’economia di un Paese è la base della sua riuscita. In RDC questa ha grandi problemi, dalla mancanza di infrastrutture alla disoccupazione passando per l’inflazione endemica. Il più grande di tutti la corruzione, che dissuade gli investitori più seri. Il problema è quindi anche politico: va cambiato il comportamento della classe politica affinché le cose funzionino meglio. La RDC è al 166 posto su 180 nell’indice di percezione della corruzione di Transparecy International.
L’inflazione poi ha raggiunto il 22% annuo secondo il Fondo Monetario Internazionale, rendendo la vita ancora più difficile e gli scontenti più numerosi.
I candidati all’opposizione non mancano di mettere in risalto il deprezzamento della loro moneta come prova del fallimento del Governo dell’attuale Presidente.
L’organizzazione di queste elezioni si svolge in un clima a dir poco teso. Dopo diversi mesi di relativa calma l’est del Paese vede riaccendersi gli scontri tra i gruppi di ribelli nei territori di Masisi, Rhutsuru e Nyiragongo, nei pressi della frontiera ruandese. E ancora esodi di decine di migliaia di civili secondo le Nazioni Unite. Un riaccendersi di violenze ancor più preoccupante visto che la Monusco (Missione delle Nazioni Unite in Repubblica Democratica del Congo) comincerà nei prossimi mesi il suo ritiro accelerato dal Paese, dopo 25 anni di discussa presenza, conformemente alle richieste di Tshisekedi.
Oggi il conflitto, nato nel 1996 dopo la prima guerra del Congo, vede coinvolti decine di attori, tra gruppi militari locali (M23 tra tutti) , forze armate regionali (kenioti, ugandesi, burundesi, sudanesi del sud) e caschi blu dell’ONU, ripercuotendosi sul Paese in termini di sicurezza, questione umanitaria (6 milioni di morti) e politica. Le popolazioni locali si sentono abbandonate, in molti vorrebbero l’autonomia dal potere centrale.
Da qui altro tema e problema: la logistica. Se la data delle elezioni è stata decisa più di un anno fa, a poche ore dal grande giorno non si sa neanche se questo si potranno fare. Qualcuno mette in dubbio la loro fattibilità tecnica e logistica. La RDC, con le sue grandi foreste, i suoi fiumi e infrastrutture limitate fa fronte a sfide considerevoli. Per non parlare della sicurezza totalmente assente in certe zone che trasforma territori interi inaccessibili. Tutto il processo elettorale è macchiato di mancanza di trasparenza aggiungendo una dimensione (ancora una volta) politica a quella oggettivamente già complessa.
Con i suoi 100 milioni di abitanti, la sua storia politica marcata da violenza e instabilità (le prime elezioni “democratiche” si sono svolte nel 2006), il Paese è sospeso tra la speranza di un processo democratico fluido e i timori legati ad ostacoli tecnici e sospetti politici.
Occupata dall’Ucraina e dalla striscia di Gaza, la comunità internazionale difficilmente punterà la sua attenzione sul Congo, troppo periferico e senza grandi sfide che mattano in discussione l’ordine mondiale.
Unico interesse i minerali. Ma di quelli si occupa già la Cina.