L’economia mondiale è terremotata dai dazi Usa imposti, e poi in larga parte sospesi, e dalla minaccia di guerre commerciali globali. Le grandi aziende italiane cercano nuovi sbocchi e le Pmi, che programmavano investimenti nell’ambito dell’internazionalizzazione, temono di dover tarare nuovamente i propri interventi. Ma oltre ai dazi, il mondo produttivo deve fare i conti anche con la crisi energetica e con gli obiettivi di decarbonizzazione.
In Europa ci siamo posti l’obiettivo di ridurre le emissioni del 50% nel 2030, un obiettivo raggiungibile, ma a patto di operare massicci cambiamenti che, forse troppo rapidamente, modificherebbero i connotati industriali delle maggiori filiere industriali europee. Alcune criticità sorte dall’european green deal sono state ad esempio l’eccessiva lentezza derivante dalla burocrazia, i costi che non sono stati assorbiti da capitali investiti e la mancata riqualificazione dei lavoratori delle imprese convertitesi alle nuove tecniche produttive.
A che punto siamo in Italia?
In questo contesto, il governo italiano, per rilanciare l’approvvigionamento energetico green, sta ricominciando a parlare di nucleare, anche in relazione all’intelligenza artificiale che consuma enormi quantità di energia. L’Italia sconta il fatto di aver avuto referendum in cui i cittadini hanno voltato le spalle al nucleare, ma è pur vero che se gli obiettivi di decarbonizzazione al 2050 restano confermati, sarà estremamente difficile raggiungerli senza il nucleare.
Un’altra strada percorribile è quello dei rifiuti e della loro gestione e lavorazione tramite le centrali geotermiche, sui quali siamo piuttosto indietro. Nel sottosuolo ci sono le materie prime che ci servono, ma anche energia, si potrebbe dunque trovare il punto di incontro fra l’estrazione dell’energia geotermica e il recupero di quei minerali di cui abbiamo bisogno, nell’ottica di una perfetta economia circolare.
La strategia americana
A gennaio, Trump ha annunciato l’emergenza energetica negli Stati Uniti, aumentando la produzione di idrocarburi, fra cui anche quella del Gnl, che noi importiamo per una quota del 36,2%. Ha chiesto all’Unione europea di comprare quantità maggiori di gas made in Usa, altrimenti avrebbe apposto Dazi maggiorati alle merci del Vecchio continente.
Nella dialettica commerciale Trumpiana l’Ue dovrà importare più gas dagli Usa, in sostituzione delle minori forniture dalla Russia, in accordo con la stretta imposta da Bruxelles. Questo però provocherà sia una maggiore dipendenza europea dal gas americano, che ulteriori costi al processo di decarbonizzazione europea, minando ulteriormente il green deal europeo.
Per condurre gli europei su posizioni di acquisto del gas americano, Trump utilizza la carta dei dazi. Premesso che i dazi non sono altro che uno strumento negoziale, la minaccia di più alte tariffe doganali, dunque, è funzionale a intavolare una negoziazione con i Paesi europei.
Per giustificare la manovra commerciale, Trump ha tirato in ballo il disavanzo commerciale fra Usa e Paesi Ue, specificando che i dazi dovrebbero essere applicati principalmente all’acciaio e all’alluminio, il che vuol dire che Trump, con questa mossa, vuole “colpire” non tanto il nostro Paese, quanto la Germania e il settore dell’automotive, settore trainante dell’economia tedesca. Questa logica è strategica in quanto, storicamente, Germania e Russia hanno avuto ottime relazioni commerciali e di forniture strategiche, pertanto, colpire il primo paese manifatturiero europeo, ha l’obiettivo di indirizzarlo all’impegno verso il gas americano.
Le PMI italiane ne risentiranno
Per le PMI italiane, la partita che si sta giocando tra Stati Uniti e Germania è molto importante, in quanto il nostro settore manifatturiero è strettamente interconnesso con quello tedesco. Qualora alla fine non si dovesse giungere ad un accordo sui Dazi tra Unione europea – che tuteli gli interessi tedeschi – e Stati Uniti, ci sarebbero conseguenze in seconda battuta anche sul sistema produttivo italiano.
Nonostante le imprese del Made in Italy che esportano direttamente negli States non dovrebbero essere colpite “direttamente” dai dazi, le conseguenze sul settore manufatturiero tedesco potrebbero avere, quelle si, effetti negativi sulle PMI italiane. Ricordiamo che il mercato statunitense non è sbocco di beni di prima necessità prodotti dalle PMI italiane, piuttosto un mercato di export di eccellenze dell’enogastronomia e lusso, con consumatori finali che non risentirebbero dell’aumento minimo provocato dalle maggiorazioni economiche.
Come scongiurare gli effetti negativi
Per rendere le PMI italiane maggiormente resilienti agli shock esogeni dell’economia è necessario lavorare sulla loro capacità produttiva, irrobustirla rendendola flessibile e meno interdipendente dal meccanismo di outsourcing che si innesta nella logica produttiva dell’economia globalizzata. Le PMI italiane devono diventare non più appaltatori di servizi al servizio delle imprese europee, ma devono essere in grado di aprirsi alle opportunità economiche e internazionalizzarsi.
Per fare ciò, il nostro governo dovrebbe rafforzare gli strumenti già in essere per l’internazionalizzazione delle PMI, oggigiorno ancora troppo poco conosciuti e di difficile approccio, soprattutto per le aziende più piccole. Conoscenza, studio, flessibilità e incentivi economici statali, questi dovrebbero essere i punti cardinali lungo i quali orientare la propria attività al fine di contribuire a creare un ecosistema produttivo italiano forte, un ecosistema dove le PMI dovrebbero svilupparsi affinché la loro internazionalizzazione permetta loro di rafforzarsi indipendentemente dalle scelte di politica economica di un paese straniero in un mercato ormai iper-globalizzato e costantemente fluido.