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Al Festival Visioni dal Mondo Nicolò Bongiorno racconta il fascino del docufilm

Per Nicolò Bongiorno, regista che, nella sua già ricca carriera cinematografica, ha collaborato a film come La dea dell’amore (Woody Allen, 1995) e La sindrome di Stendhal (Dario Argento, 1996), lo straordinario percorso televisivo tracciato da suo padre Mike resta un cammino unico e irripetibile, la sua vocazione viaggia invece verso le infinite possibilità creative e narrative che offre il cinema, in particolare il genere documentario. Al Festival Visioni dal Mondo nella sezione Industry Visioni Incontra Bongiorno ha presentato uno dei suoi affascinanti progetti in corso di lavorazione, Jullay, e ci ha raccontato del suo particolare rapporto con il cinema come figlio d’arte ma soprattutto come osservatore ed esploratore del mondo.

Nicolò Bongiorno ci ha spiegato che Jullay sarà un documentario che racconterà di una sfida, quella di una piccola società nascosta tra le vette dell’Himalaya contro l’avanzare di quel genere di progresso che rischia di distruggere l’ambiente e parte della cultura locale. Attraverso questo suo progetto Bongiorno cercherà di capire e spiegare se sia possibile trovare una via virtuosa per accogliere gli stimoli e i vantaggi della modernità salvaguardando al tempo stesso le tradizioni antropologiche e le caratteristiche ambientali proprie di ogni popolo.

La ricerca di un equilibrio tra la salvaguardia della natura e delle culture antiche e lo sviluppo tecnologico è un tema di grande attualità a cui l’arte cinematografica sembra sempre più sensibile e che recentemente sta trovando spazio in diversi film, cosa l’ha spinta ad arrivare fino in India per studiare e approfondire questo tema?

“La mia storia si svolge in un ambiente molto remoto, molto povero, veramente molto isolato. Si chiama Ladakh ed è una regione dell’India nello stato del Cachemire. È un luogo che io considero un po’ come un piccolo laboratorio perché è uno dei pochi posti rimasti isolati dal mondo dove si può ancora sperimentare. È una zona di confine dove il progresso non è ancora entrato e non ha ancora prodotto devastazioni, ma è lì sulla porta pronto ad invadere anche questa regione. L’India è un paese enorme, straordinariamente variegato e ricco di contrasti, ma il Ladakh, proprio perché difficile da raggiungere – ci si può arrivare solo in estate e d’inverno non è accessibile -, è una terra ancora vergine. Questo posto mi affascina perché sta vivendo una grande crisi di identità, un momento di imminenti trasformazioni, e può ancora scegliere in quale direzione andare. Ciò rende questo luogo particolarmente interessante anche per noi occidentali perché ci sono delle sperimentazioni in corso che potrebbero essere messe in pratica anche qui da noi”.

Chi sarà il protagonista del suo progetto?

“In questa remota regione sperduta dell’India c’è un ingegnere, si chiama Sonam Wangchuck, che sta facendo delle ricerche sulla gestione del cambiamento climatico. Piano piano le sue idee si stanno diffondendo e lui sta conducendo studi anche in Svizzera, in Perù, in altre zone dell’Himalaya. Sonam Wangchuck ha già ricevuto diversi premi internazionali, è una persona molto carismatica e visionaria, ma con delle soluzioni pratiche, semplici e al tempo stesso ingegnose che potrebbero funzionare anche da noi. Le sue tecniche stanno attirando l’attenzione di tanti architetti e di molti altri ingegneri che si sono spinti fino in Ladakh per conoscere il suo lavoro”.

Come mai dopo aver lavorato in televisione e poi a diversi film di finzione ha scelto di concentrare il suo interesse sul documentario?

“A me piace molto lo stile documentaristico. È una forma narrativa che amo molto in cui mi sto cimentando negli ultimi anni, una forma molto pura che permette di entrare in simbiosi con la realtà e con i personaggi. Il documentario offre un grande arricchimento al livello umano e consente nche una grande libertà al livello artistico e creativo”.

Cosa significa per un regista essere figlio di un personaggio così noto e con una carriera televisiva così importante come Mike Bongiorno?

“Avere per padre un mito come lui è straordinario, ma sarebbe impensabile cercare di seguire le sue orme, lui era un anchorman e ha fatto un percorso irripetibile. Per quanto mi riguarda conosco bene l’ambiente televisivo e mi attrae meno. Nel cinema c’è un’altra apertura mentale, più creativa. Ho studiato filosofia, mi piace la ricerca e la dimensione dello studio e il cinema, il mondo dei docufilm, offre eccezionali possibilità creative. Nei miei progetti metto tanto lavoro di ricerca. Lo studio, l’osservazione e l’esplorazione sono alla base di tutto ciò che cerco di realizzare. Su questi studi poi si sviluppa il progetto visivo. Mi affascina molto in particolare il tema dell’esplorazione alla quale unisco anche il piano della ricerca interiore. I miei prossimi lavori infatti svilupperanno il tema dell’esplorazione dell’ambiente anche come metafora dell’inconscio”.

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