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30 notti con il mio ex, siate affamati, siate folli

Immaginatevi la scena.

È un normale giovedì sera, la sala 1 del cinema UCI di Porta di Roma è gremita di spettatori in attesa della proiezione speciale di “30 notti con il mio ex” preceduta dall’intervento del regista Guido Chiesa, e dei protagonisti Micaela Ramazzotti ed Edoardo Leo.

Questi ultimi entrano in sala e fanno i loro interventi, qualcuno spiega le idee alla base del film, qualcun altro cerca di evidenziare fin da subito le sensibili tematiche toccate dalla pellicola, e qualcun altro la butta un po’ sul ridere, fanno per uscire, e circa metà della sala si svuota per il canonico inseguimento alla celebrità che il più delle volte culmina con un autografo, un selfie o un ordine restrittivo.

Mentre gli spettatori rientrano in sala dopo aver chiarito quanti fossero interessati a vedere di persona gli attori e quanti a vedere effettivamente il film, la proiezione comincia e ciò che si palesa agli occhi del pubblico è un prodotto scorrevole e intrattenente, in cui il delicato tema della salute mentale, va ad incorniciarsi perfettamente nel contesto di una commedia romantica equilibrata e apprezzabile da (QUASI) qualsiasi tipo di spettatore.

Malati mentali capaci di architettare trame assurde

Remake del film argentino “30 noches con mi ex”, racconta della storia di Terry (Micaela Ramazzotti), donna affetta da non meglio specificati disturbi mentali che dopo anni trascorsi in comunità è finalmente pronta a reinserirsi nella società, ma prima di tornare ad una piena e completa autonomia dovrà passare attraverso un periodo di un mese in casa dei parenti più prossimi, nella fattispecie sua figlia Emma (Gloria Harvey), ma soprattutto il suo ex marito Bruno (Edoardo Leo), uomo ansioso, quadrato e nevrotico, il cui carattere quasi al limite dell’autismo va inevitabilmente in contrasto con quello di Terry, lasciando presagire una convivenza dai risvolti tanto complessi quanto esilaranti.

Insomma, di base il film non propone nulla di nuovo, limitandosi a  riutilizzare lo schema già visto e rivisto degli opposti che finiscono inevitabilmente per scontrarsi, ma anche per attrarsi in maniera altrettanto inesorabile.

Quello che davvero distingue “30 notti con il mio ex” dalla concorrenza sono le tematiche, appunto quelle riguardanti la salute mentale, e il modo in cui queste vengono messe in scena.

Il film evita accuratamente di scadere in drammi plateali o in malinconia gratuita, anzi, gli aspetti più complessi della malattia mentale sono affrontati in maniera semplice e realistica in un costante equilibrio tra tenerezza, profondità e ilarità, favorendo una maggiore immedesimazione da parte del pubblico, soprattutto quello più giovane (emblematico in questo senso il punto di vista di Emma e del suo ragazzo Lorenzo, la cui presenza fa gridare al miracolo per aver inserito nel film un bravo ragazzo ritratto in maniera realistica piuttosto che il classico “malessere” pensato solo per entrare in contrasto con i genitori di lei).

Le riflessioni sulla salute mentale vanno ben oltre gli aspetti puramente clinici, anzi, le questioni sollevate dal film si spingono fin quasi al campo filosofico.

Cosa distingue le cosiddette persone normali, dai cosiddetti matti?

Sono davvero persone malate, o semplicemente rifiutano di sottostare a canoni e limitazioni che ad una riflessione più attenta di senso ne hanno ben poco?

Vale davvero la pena di rinunciare alla felicità per la sicurezza, che sia questa economica o di qualsiasi altra natura, dicendo di no alle nostre passioni e a ciò che ci fa realmente sentire realizzati in cambio di una stabilità solo apparente?

Queste sono solo alcune delle domande che il film suscita dopo la visione.

D’altronde basta un breve viaggio nella frenetica, schematica e frustrante vita di Bruno (nella quale ogni tanto fa capolino un Claudio Colica che, se ci dimentichiamo di associare ai Nerd Bori, risulta essere il personaggio più spigoloso del film) per accorgersi che questa, per quanto apparentemente più contenuta e socialmente più accettabile, non è più folle di quella di Terry, che ripiomba come un uragano in questo mondo fatto di convenzioni e apparenze stravolgendolo completamente, riportandovi spontaneità e verità, quella verità verso cui Terry, nella sua solo apparente mancanza di logica, si mostra estremamente più intuitiva e sensibile rispetto ai presunti sani.

Ti regalerò un kintsugi

Dunque “30 notti con il mio ex” è un film perfetto?

Assolutamente no. Certo il film intrattiene per il tempo che dura, tocca le corde giuste, e chissà, magari a fine proiezione potrebbe pure scattarci l’applauso, ma dopo un paio di giorni quello che rimane in mente è ben poco, e anzi, ad una riflessione più attenta e lucida l’intera pellicola risulta quasi essere solo un insieme di situazioni ripetitive montate una di seguito all’altra per arrivare ad un’ora e mezza di film senza che ci sia una vera e propria trama a collegare il tutto. Se tralasciamo le brevi e stereotipate liti tra padre e figlia, all’interno del film sono quasi assenti contrasti e figure negative (fatte un paio di eccezioni che non vi spoileriamo), e tutto fila liscio come l’olio dall’inizio all’ineluttabile finale alla “volemose bene”.

Ma il punto del discorso è che a Guido Chiesa forse neanche interessava fare un film perfetto.

Il prodotto sarà ripetitivo, fin troppo semplice e forse anche un pochettino melenso, ma chissà, forse una parte di spettatori, quelli più sensibili a questo tipo di tematiche potrebbero vedere in questo film un’occasione per rianalizzare le proprie vite, tirare le somme su cosa è realmente importante e ciò che è futile, e perché no, uscirne maggiormente invogliati a portare nella propria vita quei cambiamenti che troppo spesso rimangono solo un buon proposito.

Emblematica in questo senso all’interno del film la metafora ricorrente del kintsugi, l’arte giapponese del riparare gli oggetti rotti con l’oro aumentandone così il valore, esattamente come Terry, che nell’arco delle sue 30 notti con il suo ex, distrugge la sua vita facendone qualcosa di molto di più.

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