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Storie vere di crimini sul grande schermo

Con il successo della serie statunitense Dahmer – Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer, diffusa su Netflix quest’anno, si è risvegliato nel pubblico un interesse morboso per le storie basate sui crimini.

Dahmer si ispira all’agghiacciante biografia del serial killer e cannibale Jeffrey Dahmer che ha sconvolto il Wisconsin negli anni ottanta.

Gli omicidi, soprattutto quelli più efferati, sono sempre un tema coinvolgente perché scavano nell’interiorità umana e ne scandagliano le psicosi e i disturbi che possono portare una persona a compiere atti disumani.

Nel piccolo schermo è stato un soggetto abusato principalmente attraverso serie tv o film di basso livello, con pochi prodotti di alta qualità (es. I segreti di Twin Peaks). Nel cinema ci sono tanti esempi di pellicole crime che hanno riscosso grande successo (es. The Irishman o Non è un paese per vecchi) ma non tutte sono basate su fatti realmente accaduti.

In questo articolo analizzeremo alcuni dei film meglio strutturati che narrano fatti di cronaca reali e si incentrano sulla psicologia dei protagonisti assassini.

Memories of murder

Partiamo da Memories of murder (2003), di Bong Joon-ho, che trae ispirazione dalla storia vera del primo assassino seriale coreano conosciuto, attivo fra il 1986 e il 1991 a Hwaseong.

Rimasto a lungo un caso irrisolto, Lee Choon-jae ha confessato di aver commesso più di quattordici omicidi e trentun stupri.

Un film crudo ma raffinato che riesce a coniugare intensità ed eleganza in maniera notevole. Sotto la trama del thriller poliziesco si concentrano i fantasmi di un paese e le contraddizioni di un protocollo investigativo: l’indagine precaria e priva di solide basi, diventa metafora di uno scenario politico sfuggente.

Mentre le memorie del titolo indicano l’impossibilità di riordinare i frammenti di una serie di avvenimenti che sembrano ormai perduti.

Il regista cura abilmente i momenti narrativi più complessi, carichi di espressività, ma anche le divagazioni dal tono comico, sfatando gli stereotipi del genere investigativo.

Dogman (2018) di Matteo Garrone si rifà liberamente al delitto del Canaro, l’omicidio del criminale e pugile dilettante Giancarlo Ricci, commesso nel 1988 a Roma da Pietro De Negri, detto er canaro.

Garrone ama le storie vere come si evince dalle sue opere precedenti, ad esempio Primo amore, Reality, Gomorra o L’imbalsamatore, tutte narrazioni legate da un unico fil rouge: raccontare l’animo umano più abietto.

Dogman è una storia di soprusi romanzata: parla di un uomo che vuole vivere nell’ombra ma viene costantemente tormentato da un ragazzo molto violento e dopo l’ennesimo sopruso decide quindi di vendicarsi.

Una vendetta narrata con delicatezza, con umanità e compassione nei confronti dell’altro.

Questo è poi il vero scopo della pellicola, andare oltre il fatto di cronaca e snocciolare le cause, gli espetti più intimi della vita del protagonista.

Dogman è amaro, non lascia trasparire nessuna speranza per un futuro più roseo, ma mostra in maniera diretta alcuni dei lati più oscuri del genere umano, senza giudicare né assolvere!

Dogman

La vera storia di Jack lo squartatore (2001) dei Fratelli Hughes è incentrato sulla misteriosa vicenda dell’assassino seriale passato alle cronache come Jack lo squartatore, di cui tuttora non si conosce l’identità.

Nella selezione di film scelta sul tema è il più anonimo, un blockbuster che incentra tutta la potenza espressiva su Johnny Depp ossia l’ispettore che segue il caso.

Ma è interessante notare come ogni regista che tratti le personalità omicide si concentri su diversi elementi. In questo caso, non conoscendo il volto e il carattere dell’assassino, i fratelli Hughes focalizzano l’attenzione sulla persona che investiga.

Costruendogli attorno un alone di mistero, rendendolo protagonista di una ricerca segnata da geniali intuizioni.

Sulla stessa scia, ossia quella di dare risalto al team dei detective, si annovera Zodiac (2007) di David Fincher, dedicato al serial killer statunitense denominato Killer dello Zodiaco, che negli anni sessanta e settanta sconvolse la città di San Francisco.

Un thriller atipico ma godibile che all’interno di una classica sfida tra investigatori e serial killer inserisce una cornice di eventi che legano il caso di Zodiac al suo periodo storico, rendendo i due elementi interconnessi.

Nella prima parte del film assistiamo quasi ad un documentario perché il killer non si vede mai, ma si vedono le sue lettere e le tracce che lascia a poliziotti e giornalisti che si occupano del caso.

Se all’inizio può sembrare un racconto distaccato che prosegue per parole e mai immagini di omicidi, sul finale la trama si appiattisce, divenendo simile a qualsiasi altro film crime.

Un modus operandi che ci ricorda Il caso Spotlight per il suo analizzare i fatti in maniera fredda e formale e che risulta più simile ad un docu che ad un contenuto d’invenzione, quale è il film.

Zodiac

Anche se la lista di film che rielaborano casi di cronaca nera sono numerosi, tra i più rilevanti, ci sentiamo di terminare con Bronson (2008) di Nicolas Winding Refn.

Il regista ci racconta la storia del feroce criminale Charles Bronson noto soprattutto per aver trascorso gran parte della sua vita in carcere, passando oltre trent’anni in isolamento. 

Un bio-pic che rompe gli schemi, nel suo seguire una sequenza di scene dalla cronologia casuale, alternando momenti di estrema violenza a scene dal gusto grottesco.

Cupo e fastidioso, non consente al pubblico di entrare a fondo nella narrazione perché ha uno stile incoerente e intermittente, ma emana il virtuosismo di una regia tutta danese. Quella di Refn, autore anche di Drive, il capolavoro muscolare e dai colori brillanti che mette in scena un eroe solitario e misterioso.

Ma tornando a Bronson possiamo definirlo un melodramma ambientato in prigione che non ha nulla di patetico ma, anzi, dei picchi di genialità. Il regista estetizza la violenza non tanto per appagare i propri sensi quanto per mero virtuosismo, per mostrare con vigore e rabbia (come quella del protagonista) il suo talento.

Come quando il protagonista rompe la quarta parete e si rivolge direttamente allo spettatore, cosa c’è di più provocatorio?

Dahmer

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