La famiglia è un tema molto sentito ed è protagonista in numerosi film.
È interessante notare che se da un lato la sua influenza è spesso riscontrabile nella formazione di ogni individuo, dall’altra ciò che accade veramente all’interno delle mura domestiche è invisibile agli occhi esterni.
I registi, quindi, diventano dei maestri maieutici in grado di cogliere dalla realtà tutti gli elementi positivi o negativi e di trasporli con il mezzo cinematografico.
La familiarità tossica ha, però, una capacità maggiore di narrazione, alle prese con la violenza verbale, fisica e psicologica o il completo disinteressamento.
Analizziamo dunque alcuni film che hanno mostrato alcuni possibili legami familiari, a volte in maniera cruda e altre volte con delicatezza, ma sempre dal suo lato deforme e crudele.
Il primo regista ad essere oggetto di studio è il greco Yorgos Lanthimos, volutamente disturbante nelle sue rappresentazioni di perversa quotidianità.
In Kynodontas Lanthimos dà libero sfogo alla sua torbida creatività, mettendo in scena una famiglia abnorme che è metafora del capitalismo.
Questa pellicola surrealista mostra due genitori che tengono prigionieri tre figli, impedendo loro ogni contatto con la realtà esterna, perché considerata pericolosa. Insegnano loro delle parole che hanno altri significati normalmente, li costringono ad avere rapporti sessuali incestuosi per soddisfare le proprie impellenze fisiche e li trattano come fossero dei bambini. Viene detto loro che un bambino è pronto a uscire di casa solamente quando uno dei suoi canini cadrà, ma i figli sono ormai adulti e i canini non cadranno più.
Una violenza inaudita che è però resa con una fotografia impeccabile, luminosa e straniante.
Si tratta di una critica alla società, la belva feroce che plasma le menti e il linguaggio delle persone, togliendo ogni libertà.
Il cinema, ossia i film, viene rappresentato come la luce salvifica, la spinta propulsiva per il riscatto.
L’atto di autolesionismo e di evasione finale che compierà una delle figlie sarà necessario ma forse non risolutivo, il regista lascia decidere al destino quale futuro le sarà riservato: quello della agognata libertà o quello della coercizione continua?
Mommie Dearest di Frank Perry è invece tratto da una storia vera, quella della figlia adottiva di Joan Crawford, diva hollywoodiana degli anni Trenta, che annovera tra i suoi ruoli più celebri quello di Blanche Hudson in Che fine ha fatto baby Jane? (regia di Robert Aldrich).
Mammina cara è un vezzeggiativo con cui si fa chiamare la mamma, ma nulla ha a che vedere con il suo atteggiamento sadico, iracondo e instabile.
Atti di ira funesta si abbattono sui bambini, i quali impauriti piangono e chiedono scusa, come se la colpa di un genitore affetto da problemi psichici debba ricadere sui figli.
La paranoia del pulito spinge Faye Dunaway (alias Joan Crawford) ad accanirsi in modo violento sia verbalmente sia fisicamente sulla figlia Christina, vittima inconsapevole.
Ma non mancano le frustrazioni personali che si aggiungono alle altre nevrosi e che rendono la madre una figura degenerata, incapace di amare e di mostrare affetto.
Un rapporto malsano che viene ripreso dal regista con distacco. La crudeltà viene mostrata senza nessuno filtro, le scene di rabbia e psicosi sono magistralmente interpretate dalla Dunaway, elegante e spietatamente brava.
Anche in Nobobdy Knows di Hirokazu Kore’eda, la storia narrata si ispira ad una vicenda realmente accaduta nel 1988, quando una madre lasciò da soli i cinque figli minorenni in un appartamento di Tokyo.
Il regista, infatti, con l’occhio della camera, delinea una narrazione dolorosa ma lo fa con una grazia commovente.
Quattro figli abbandonati, indifesi e senza soldi.
Una madre completamente disinteressata che sceglie l’amore per un uomo piuttosto che per i suoi figli.
Sarà il fratello maggiore a prendersi cura della famiglia, non si darà per vinto nemmeno quando si troverà nei momenti più bui.
Una storia delicata che non si piange addosso ma trova la forza nel desiderio di vita dei bambini, i quali con purezza d’animo affrontano anche le difficoltà più grandi, come l’abbandono.
Col sorriso o con lo sguardo triste ma sempre pronti a darsi sostegno, si aggrappano alla vita e alla speranza di un futuro migliore.
Poi troviamo Miss Violence di Alexandros Avranas, che ricorda un po’ il film di Lanthimos: la provenienza e il contesto sono le stesse ma è differente la modalità di descrizione.
Al contrario di Lanthimos, Avranas ha un approccio e un’estetica più cupi, rigidi e meno evidenti, tutto si scopre mano mano che la narrazione prosegue.
Una bambina si toglie la vita e la famiglia si domanda il perché, ma lo spettatore è ancora ignaro che a causare quella tragedia sia stata proprio la famiglia.
I figli sono oppressi e vengono costantemente abusati, in un clima di totale controllo da parte del padre, il capofamiglia.
Viene rappresentata una familiarità davvero disfunzionale che non è degna di essere definita famiglia, perché alla base di un legame così intimo si prevedono l’amore e la cura.
Concetti totalmente assenti in queste dinamiche relazionali, alimentate soltanto da degenerazioni e disturbi psicologici gravi.
Mommy infine, di Xavier Dolan, è forse l’esempio più morbido del concetto di famiglia tossica.
Una mamma, sola e sopra le righe, deve far fronte ad un figlio con un limitante disturbo psichiatrico.
Scatti violenti d’ira del ragazzo si alternano a momenti di dolce affettività nei confronti della madre e di euforia verso il mondo esterno. La madre, però, non è l’esempio perfetto di genitore: è una donna dura, provata dalla vita e non ha gli strumenti adatti per controllare l’uragano di vita che ha generato.
Ma qui l’amore è percepibile in ogni scena: anche quando si insultano in maniera forte, i due sono legati da un profondo affetto.
Dolan ha mantenuto quasi sempre un’inquadratura quadrata e claustrofobica, che costringe a inquadrare una sola persona per volta.
Solamente in due sequenze, che ritraggono i momenti più felici del figlio, l’immagine si allarga, come a raffigurare l’ampliarsi della vita, come a cristallizzare nel film l’eternità di quegli istanti.
Per concludere si possono citare, Buon compleanno Mr. Grape di Lasse Hallström e American beauty di Sam Mendes che trattano l’argomento in maniera marginale.
Ma lascio a voi capire quali elementi di queste due famiglie producano la nocività.