"Non si parla facilmente di sé stessi, è più facile parlare degli altri"

In ricordo di Jean-Luc Godard, il maestro della Nouvelle Vague
Oggi ricordiamo un grande protagonista del cinema, secondo cui “Il cinema è verità suddivisa in 24 fotogrammi al secondo”.
Nato a Parigi il 3 dicembre 1930, Jean-Luc Godard è il regista più significativo della Nouvelle Vague.
Una figura scontrosa e ribelle che ha fatto del cinema un’arma attraverso cui combattere le ipocrisie della società e svecchiare le concezioni arretrate.
Con l’obiettivo di creare dal nulla, sgombro da preconcetti, Godard apporta grandi innovazioni linguistiche al mezzo cinematografico e trascina lo spettatore fuori dalla sua zona di comfort.
In più di sessant’anni di carriera, l’artista ha sovvertito i luoghi comuni del cinema andando contro la sua classe sociale, il capitalismo e la cultura di massa. Ma soprattutto contro quel cinéma de papa, conformista e pieno di sé, che Jean-Luc ha attaccato come critico, cineasta e sovvertitore politico.
La Nouvelle Vague
Ma per analizzare Godard appieno, è bene andare all’origine della sua produzione: la Nouvelle Vague.
Questo termine significa “nuova onda” e corrisponde ad un movimento cinematografico francese che nasce sul finire degli anni Cinquanta come il diario intimo di una generazione nuova, disinvolta e inquieta.
Lo scopo della Nouvelle Vague è catturare e testimoniare in tempo reale l’immediatezza del divenire, ecco perché nella realizzazione delle pellicole viene eliminato ogni artificio che potesse compromettere la realtà: si fa a meno di proiettori, attrezzature elaborate e scenografie.
I film vengono girati alla luce naturale del giorno, per strada o negli appartamenti dei registi, con attori poco noti, e le riprese vengono realizzate con una camera a mano, accompagnata da una troupe scarna (composta per lo più da conoscenti).
Tra i primi registi che si riconoscono nel movimento troviamo proprio Jean-Luc Godard, François Truffaut ed Éric Rohmer, un gruppo di amici con una viscerale cultura cinematografica.
Secondo la loro visione un film non coincide mai con la sua sceneggiatura o la sua scenografia, bensì con colui che l’ha girato.
Il regista diviene uno scrittore di cinema che utilizza il mezzo cinematografico per comunicare con lo spettatore attraverso determinate scelte stilistiche capaci di rappresentare una realtà artefatta.
Centrale è la rottura di ogni convenzione, in particolare di quella della continuità:
in Fino all’ultimo respiro, Godard amputa i silenzi da un dialogo;
in La jetée, Chris Marker presenta una successione d’immagini statiche, con un unico narratore e un sottofondo sonoro;
in Hiroshima Mon Amour, Alain Resnais utilizza i flashback.
Non si tratta soltanto di rompere con la tradizione per provocazione, ma di trasmettere al pubblico qualcosa di innovativo, di rappresentare un aspetto della realtà: i ricordi che ognuno di noi ha dei momenti della propria vita, i quali sono tronchi, disordinati e procedono per salti temporali.
L’evoluzione godardiana
Fino all’ultimo respiro (1959) è il primo lungometraggio di Godard ma è anche il simbolo della Nouvelle Vague francese.
All’interno di questa opera sono presenti alcune infrazioni ai modelli narrativi consueti: il montaggio sconnesso, gli attori che si rivolgono direttamente al pubblico e gli sguardi in macchina.
Il periodo che va dal 1960 al 1967 è caratterizzato da una grande creatività che porta il regista a concentrarsi sui film statunitensi di genere degli anni Cinquanta e a realizzare ventidue film.
Nel 1965 esce al cinema Il bandito delle 11 (Pierrot le fou), un altro emblema della Nouvelle che scardina ogni concetto, stabilito fino a prima, di film.
Come ben descrive il giornalista Lello Bersani, in un’intervista del 1965 al regista, il film incomincia con la musica e va avanti con il dialogo, è in bianco e nero con scene a colori che appaiono all’improvviso e sono inseriti titoli di giornali nel film.
A partire dal 1966 Godard si allinea alle teorie marxiste, così il cinema diviene lo spazio in cui condannare la civiltà dei consumi e la mercificazione dei rapporti umani, ma anche in cui poter riflettere sullo status dell’immagine come portatrice di un’ideologia.
Il regista arriva addirittura a fondare, assieme ad altri, il Gruppo Dziga Vertov, per realizzare un cinema collettivo, anonimo e senza firme d’autore.
Con l’arrivo delle nuove tecnologie inizia infine il terzo periodo, quello dell’ultimo Godard, basato su un’intensa sperimentazione in cui il video viene impiegato per una critica nuova, fatta di immagini per immagini.
In questo periodo l’autore riesce a valorizzare la pura immagine a discapito del racconto, utilizzando sequenze autonome per la loro sola bellezza, come avviene in Passion (1982) che può essere considerato il simbolo della sua nuova concezione estetica.
Ad oggi invece il regista ha scelto di allontanarsi dalla scena pubblica, non ritirando nemmeno l’Oscar alla carriera che il suo nemico Hollywood gli ha assegnato.
Godard rimane un faro sempre luminoso della cultura cinematografica, lasciando ai posteri tanti elementi e spunti di avanguardia per lo stile delle metodologie filmiche.