Un Divano a Tunisi, film della regista franco tunisina Manèle Labidi presentato lo scorso anno alle Giornate degli Autori di Venezia, è ambientato in un contesto, quello islamico post dittatoriale, ancora abbastanza distante dalla cultura occidentale, ma in forma un po’ bizzarra racconta qualcosa di primigenio, atavico, qualcosa che i due mondi hanno ancora in comune e che fa sorridere e riflettere al tempo stesso. E le distanze si accorciano.
In occidente una donna che eserciti la professione di psicanalista non costituisce ormai più un fatto insolito. In un paese di cultura islamica però la cosa risulta non solo stravagante, ma genera anche disagio e attrazione nello stesso tempo. Eppure, tra sorrisi e stupore, con Un Divano a Tunisi Manèle Labidi, regista cresciuta in Francia e tunisina di origine, riesce a mostrare non solo gli aspetti di diversità tra una società di cultura islamica come quella tunisina e quella più aperta e moderna francese, ma anche gli elementi di convergenza quasi antropologica tra questi due mondi.

Un Divano a Tunisi, la trama
Dopo aver trascorso parte della sua vita in Francia, Selma (Golshifteh Farahani), una giovane psicoanalista, torna nel suo paese d’origine, la Tunisia, decisa ad aprire un suo studio nella periferia di Tunisi a Ezzahra. All’indomani della Primavera araba, nel pieno della ricostruzione dopo un lungo periodo di dittatura, i tunisini si interrogano sul futuro politico ed economico del loro paese. Per Selma, giovane donna dal carattere forte e indipendente cresciuta a Parigi insieme al padre, non tutto va liscio come si sarebbe aspettata e mentre cerca di avviare la sua attività si scontra con un ambiente, anche familiare, che non le è del tutto favorevole, con una burocrazia traballante e con una sequela di pazienti decisamente eccentrici.
Un divano che accorcia le distanze
Tra situazioni stravaganti, personaggi originali e ambienti un po’ decadenti ma vivaci, Un divano a Tunisi è la messa in scena di un mondo, per noi occidentali, solo all’apparenza esotico e un po’ ristretto in quanto a vedute e sistemi sociali. Via via che Selma prende confidenza con il suo contesto di origine ciò che all’inizio sembrava strano diventa sempre più familiare, sempre più vicino alla realtà di ogni società e ambiente. Tutti i malintesi e le difficoltà che fanno sorridere, ma che lasciano anche un velo di amarezza, in fondo si rivelano poi non tanto diversi dalle ordinarie situazioni sociali comuni anche nei nostri ambienti occidentali. Gli ostacoli che Selma incontra in quanto donna indipendente e autodeterminata in una società ancora di base fortemente patriarcale, la diffidenza, ma insieme anche il fascino, che la sua figura suscita tanto sugli uomini quanto sulle donne, alla fine non sono un affare poi così distante rispetto a quanto accade spesso ancora oggi negli ambienti occidentali. Persino i suoi pazienti, i suoi parenti e in generale tutti i personaggi che ruotano intorno a lei manifestano questa frizione tra una società ancora legata a stili di pensiero tradizionali e la spinta ad andare verso un mondo più libero dagli schemi, meno ancorato a convinzioni asfissianti.
Il personaggio di Selma, nell’ottima interpretazione di Golshifteh Farahani, racchiude in sé questi contrasti in modo eccellente, brillante ed equilibrato. La sua figura e la sua storia sono ben costruite e credibili, tanto nella diversità rispetto agli altri personaggi quanto nella complessità delle ragioni che la spingono a scelte fuori dai canoni, sia per il mondo occidentale che per quello di cultura islamica. Il suo percorso diventa un po’ quello dello spettatore stesso che osserva, ma diventa anche partecipe delle sue difficoltà e alla fine si ritrova, come Selma, integrato e al tempo stesso estraneo a tutte e due le realtà. A dimostrazione che una terza via, quella che concilia canoni sociali e culturali con istanze personali, è sempre possibile, non facilmente praticabile, ma certamente auspicabile in un mondo che ha sempre più bisogno di integrazione, sotto ogni aspetto.
Un divano a Tunisi è dunque un film gradevole, divertente, vivace ma anche sufficientemente intelligente. Ha una piccola caduta narrativa in una scena, sospesa tra sogno e realtà, in cui Selma incontra un misterioso personaggio dalle fattezze freudiane, una scena che nel complesso risulta un po’ ridondante e poco efficace anche come espediente all’interno del racconto rispetto alla raffinata e sagace simpatia della storia.